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lxxxvi prefazione

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Ma la satira, mi si opporrà, deve ferire il vizio, non le persone. Distinguo. La satira giocosa che va tafanando solamente i piccoli difetti, astengasi — è suo dovere — dall’accennare in viso la gente. Dio solo è senza pecca. Gli uomini anche migliori hanno tutti, chi più chi meno, delle storture; ma non cessano per questo di essere rispettabili, e d’avere il diritto che nessuno li faccia segno alle bajate del pubblico. Quindi la satira bernesca, che nominando o ammiccando Tizio o Cajo li espone alla berlina, commette una ingiustizia, e sa di pettegolezzo. Il modo che questa satira ha da tenere, è pittorescamente espresso dal Giusti con un paragone. «Un libro di satire, egli dice, deve essere come una bottega di vestiti bell’e fatti. Il sarto non ha tagliate quelle giubbe al dosso di questo o di quello, ma le ha tagliate a seconda dell’uso che corre, lasciando poi che la gente scelga a sua posta, e dica se vuole: questa va bene a me».[1] Vi sono però degli uomini, che da sè stessi si metton fuori della legge comune; o perchè, se in condizione privata, ne fanno delle troppo nere; o perchè, se ufficiali pubblici, anche ciò che in altri non sarebbe mancanza grave, in essi è colpa gravissima. E cotesti la satira ha diritto di smascherarli e di ferirli senza tanti riguardi. Dirò di più: la sola satira che mira a costoro, è magna-

  1. Giusti, Vita del Parini, p. 126.
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