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l'opera di giovanni schiaparelli | 303 |
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Vini tenui ingenio spirabit gloria Olympi;
Dumque lyra audaci sidera magna canam,
Pindarus Aonia mecum si judice certet,
Pindarus Aonia judice victus erit.50
Achilles Parius[1]
V.
Nel 1900 lo Schiaparelli volle, malgrado le opposizioni e le insistenti preghiere fattegli, abbandonare la direzione della specola di Brera, un pò per ragione della sua salute cagionevole, molto, credo io, per darsi finalmente alle intime gioie intellettuali del lavoratore indipendente e solitario. Ritiratosi a vita privata dedicossi egli infatti senza indugio alle sue predilette ricerche intorno alle origini dell’Astronomia, e ad esse meglio si preparò cominciando a studiare a fondo la lingua degli Ebrei e la scrittura degli Assiri e dei Babilonesi.
In pochi anni riuscì a poter leggere la Bibbia nel testo ebraico, e a pubblicare, già nel 1903, prima un dotto articolo intitolato «Interpretazione astronomica di due passi del libro di Giobbe», poi il suo libro «Sull’astronomia nell’antico Testamento». Rivelano dette pubblicazioni quanto a lui fosse famigliare la vasta letteratura avente a protagonista il popolo Ebreo; espongono esse con ordine quanto gli Ebrei sapevano in fatto di astronomia, e quali applicazioni delle cognizioni astronomiche loro fatte avevano alla cronologia e alle pratiche religiose. Non era possibile trarre dalla sacra scrittura risultati paragonabili per importanza a quelli che egli dedotto aveva dalla letteratura astronomica dei Greci, ed egli stesso trova la ragione in ciò che al popolo Ebreo non toccò in sorte la gloria di creare i principî delle scienze, e nemmeno quella di levare ad alto grado l’esercizio delle belle arti, l’una [2]