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IPOTESI E REALTÀ


NELLE SCIENZE GEOMETRICHE



La matematica è una scienza nella quale non si sa mai di che si parli, nè se ciò di cui si parla sia vero. Così almeno afferma Bertrand Russell. Ed è indubitabile che, quando si consideri la matematica come una severa catena di stringate deduzioni, sgorganti, colle leggi della logica formale, da un gruppo di principii esplicitamente enunciati — è questo il cosidetto punto di vista logico-deduttivo — nulla di più paradossalmente giusto del mot d’esprit di Russell.

Si affronta l’interlocutore e lo si invita ad ammettere senza discussione alcuni principii primordiali: padronissimo egli di formarsi degli oggetti del discorso un’idea completamente diversa dalla mia, o di non formarsene addirittura nessuna. Resteremo d’accordo lo stesso, a patto che durante l’implacabile ragionamento logico che mi propongo d’infliggergli, egli non pretenda di far uso di proprietà diverse da quelle che, di comune accordo, abbiamo postulato dal principio.

E il risultato del nostro discorso? Una proposizione ipotetica di questo tipo: Se è vera la proprietà tale, lo è pure la tal altra. In particolare, se parlassimo di geometria, non dovremmo di necessità riferirci a quel qualche cosa che tutti chiamiamo spazio, ma ad un qualunque altro ente, pel quale fossero soddisfatte le proprietà postulate.

Lo spazio in questo modo diventa un concetto capace di infinite interpretazioni o determinazioni, diversissime tra di loro[1].

La cosa è di certo utile. Guadagnando in astrazione si guadagna in generalità. Ma per fortuna di noi matematici, la

  1. Enriques, Problemi della Scienza; Zanichelli, Bologna, 1906; p. 278.
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