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ccxlviii Prefazione

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Sonetti romaneschi I.djvu{{padleft:260|3|0]]rono i più nefasti per Roma e per la Repubblica. E appunto il giorno tredici, il giorno che il canto dell’inno popolare:

   Dell’Italia sulla terra
Non più Papa non più Re:
Più servaggio qui non v’è:
Guerra, guerra!

veniva bruscamente interrotto da "due scoppi tremendi di mina,„ che fecero credere a un attacco de’ Francesi, e misero sottosopra tutta la città,[1] il Belli scriveva e chiudeva nella cassetta dov’erano i sonetti l’ordine di bruciarli dopo la sua morte; perchè da lui "fatti per solo capriccio e in tempi di mente sregolata,„ e perchè opposti "agl’intimi e veraci sentimenti„, dell’animo suo: con che egli veniva implicitamente a riconoscere che essi contenevano anche molto di soggettivo.

Da allora in poi, non fu più lui.

Caduta la Repubblica, nella cui breve durata si era, a suo dire, "compendiato quanto di fellonesco, di barbaro e di abbietto abbia saputo mai osare la depravata coscienza dell’uomo;,, il 12 aprile 1850, giorno in cui Pio IX rientrò in Roma "con mirabilissimi applausi del popolo,„ egli compose il seguente sonetto, e lo mandò poi in giro stampato, ma anonimo:

al signor giuseppe mazzini.

   Signor Giuseppe mio, che ve ne pare
Di questi popolacci papalini
Che rinnegano voi, Saffi, Armellini
E messer Belzebù vostro compare,

   Per rimetter sul trono e sull'altare
Un prete che non ama gli assassini
E pospone agli oracoli divini
Le vostre profezie semplici e chiare?


  1. Giuseppe Spada, Op. cit., vol. III, pag. 473.
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