< Pagina:Sonetti romaneschi I.djvu
Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta.
144 Sonetti del 1831

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Sonetti romaneschi I.djvu{{padleft:456|3|0]]

CAINO

  Nun difenno Caino io, sor dottore,[1]
Ché lo so ppiù dde voi chi ffu Ccaino:
Dico pe’ ddì che cquarche vvorta er vino
Pò accecà l’omo e sbarattajje er core.

  Capisch’io puro che agguantà un tortóre[2]
E accoppàcce un fratello piccinino,
Pare una bbonagrazia da bburrino,[3]
Un carcio-farzo[4] de cattiv’odore.

  Ma cquer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle
E a le su’ rape je sputava addosso,
E nno’ ar latte e a le pecore d’Abbele,

  A un omo com’e nnoi de carne e dd’osso
Aveva assai da inacidijje er fèle:[5]
E allora, amico mio, tajja ch’è rrosso.[6]

Terni, 6 ottobre 1831

  1. [È detto per stizza ironicamente.]
  2. Pezzo di ramo di albero. [V. la nota 8 del sonetto: Una lingua ecc., 2 dic. 82.]
  3. Contadino romagnolo. [Non sempre. V. la nota 4 del sonetto:
    Le lingue ecc., 16 dic. 82.]
  4. Calcio falso: tradimento.
  5. [Inacidirgli il fiele: cagionargli un profondo e feroce rancore.]
  6. Frase usata per esprimere l’abbandono di ogni riguardo od esitazione. È metafora presa dal tagliare i cocomeri. [O meglio, dal grido di coloro che li vendono, il quale è appunto: Tajja ch’è rrosso!, ovvero: È rosso, pijja e ttajja!]
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.