< Pagina:Sonetti romaneschi II.djvu
Questa pagina è ancora da trascrivere o è incompleta. |
348 | Sonetti del 1833 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Sonetti romaneschi II.djvu{{padleft:358|3|0]]
LA PELLE DE LI COJJONI
Avevo sempre inteso ch’è ppeccato
No cquello ch’entra in bocca, ma cquer ch’essce.
Vedenno[1] che sto pessce indemoniato
Ne li ggiorni de magro sempre cresce:[2]
Essennome a l’incontro[3] immagginato
Ch’er maggnà ttartaruche è un maggnà ppessce,
Io le maggnavo in pasce; ma er Curato
M’arispose sta pascua: “M’arincressce.„
“Ma cquesta, padre mio, me sa un po’ d’agro:[4]
Li Pavolotti[5] nun farìano[6] peggio,
C’hanno da cuscinà ssempre de magro?„
“Fijjo caro, voi dite un zagrileggio:
Nun è llescito a vvoi d’entrà in ner zagro:
Si[7] lle maggneno loro, è un privileggio.„
Roma, 13 gennaio 1833
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.