< Pagina:Sonetti romaneschi III.djvu
Questa pagina è ancora da trascrivere o è incompleta. |
174 | Sonetti del 1834 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Sonetti romaneschi III.djvu{{padleft:184|3|0]]
ER PAPA MICCHELACCIO[1]
Sai che ddisce[2] sta perzica-durasce?[3]
“Ho fatto tanto pe’ arrivà ar Papato,
Che mmó a la fine che cce sò arrivato
Io me lo vojjo gode[4] in zanta pasce.
Vojjo bbeve[5] e mmaggnà ssino c’ho ffato:
Vojjo dormì cquanto me pare e ppiasce;
E ar Governo sce penzi chi è ccapasce,
Perch’io nun ce n’ho spicci[6] e ssò Ppilato.„[7]
Lui nun l’ha un cazzo[8] er maledetto vizzio
De crede[9] che cquer bon Spiritossanto
J’abbi dato le chiave pe’ un zupprizzio.
E le cose accusì vvanno d’incanto.[10]
Mó la pacchia[11] è la sua: poi chi ha ggiudizzio
Quanno ch’è ppapa lui facci antrettanto.[12]
14 marzo 1834
- ↑ Maggnà, bbeve e annà a spasso: Ecco l’arte der Micchelaccio. Questi sono due versi rimati che rinchiudono una sentenza romanesca.
- ↑ Dice.
- ↑ Pèsca-duràcina: dicesi di coloro che hanno robusta complessione. Tale è infatti quella del nostro sommo Pontefice Gregorio XVI, che Iddio guardi nella sua santa custodia.
- ↑ Voglio godere.
- ↑ Bere.
- ↑ Non averne spicci (spicciolati) è metafora presa dalla moneta, quasi volesse dirsi: “io non ne ho per questo mercato.„
- ↑ Sono Pilato, cioè: “me ne lavo le mani.„
- ↑ Non l’ha affatto.
- ↑ Di credere.
- ↑ Vanno a maraviglia bene.
- ↑ Pacchia è “tutto ciò che di comodo ed utile ci derivi dalla fortuna.„ Potrebbe servir di sinonimo a cuccagna.
- ↑ Faccia altrettanto.
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.