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Sonetti del 1835 | 311 |
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ER PUPO.
2.
Ajo,[1] commare mia, ajo che ffiacca![2]
Tenello[3] tutto er zanto ggiorno in braccio!
Mai volé stà[4] in ner crino![5] mai p’er laccio![6]
Io nu’ ne posso ppiù: sso’ ppropio stracca.
Lo vedete? Mo adesso me s’attacca,
E mmé la tira inzin che nun è un straccio.
Uf, che vvita da cani! oh cche ffijjaccio!
Làssela, ciscio,[7] via: fermo, ch’è ccacca.
Bbasta, Pietruccio mio, bbasta la sisa.[8]
Dajjela un po’ de pasce[9] a mmamma tua...
Ecco er pianto. Che ggioia, eh sora Lisa?
Ssì, ssì, mmó jje menàmo ar caporèllo.[10]
Bbrutta sisaccia, c’ha ffatto la bbua
A li dentìni de Pietruccio bbello.[11]
20 settembre 1835
- ↑ Ahi!
- ↑ Quale fiacchezza!
- ↑ Tenerlo.
- ↑ Voler stare.
- ↑ Crino è “quel cesto a campana, entro cui si pongono i bambini, perché si addestrino a camminare di per se stessi, senza cadere.„ [Camminarello, nell'Umbria; cestino, a Firenze.]
- ↑ Il laccio che loro si attacca dietro le spalle, onde sorreggerli nel camminare. [Dunque: laccio a Roma, lacci a Pistoia, falde a Firenze, dande a Siena, caide ad Arezzo, cigne a Lucca, e chi più n'ha, più ne metta.]
- ↑ [Vezzeggiativo che s' usa coi bambini.]
- ↑ Poppa.
- ↑ Dagliela un poco di pace.
- ↑ Al capezzolo.
- ↑ Così fin dai primi momenti della vita si principia ad educare i bambini alla vendetta delle reali offese e delle immaginarie, contro gli animati esseri e gl’inanimati.
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