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326 Sonetti del 1835

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ER PADRE E LA FIJJA.[1]

  Sì, è stata una commedia troppa corta,
Ma è stata una commedia accusì bbella,
Ch’io pe’ ssentilla ar monno un’antra vorta
Me sce farebbe[2] strascinà in barella.

  C’era una fijja d’una madre morta,
Bbona e ggrazziosa, e sse[3] chiamava Stella.
Poi sc’era un padre, una testaccia storta,
Che strepitava:[4] “È cquella e nun è cquella.„

  La parte de sta fijja tanta cara,
Senti, la rescitò ’na scerta[5] Amalia,
Un angelo de Ddio, ’na cosa rara.

  Che pparlate! che mmosse! tutte fatte
Da intontì.[6] Bbenedetta quela bbalia
Che ll’ha infassciata e cche jj’ha ddato er latte![7]

25 settembre 1835

  1. Estella, ossia Il padre e la figlia, commedia di Scribe, tradotta liberamente e ridotta all’uso della scena italiana dal nostro amico Giacomo Ferretti. Fu rappresentata al Teatro della Valle dalla drammatica Compagnia Mascherpa; e i caratteri de’ due protagonisti vennero sostenuti dai sommi artisti Luigi Domeniconi e Amalia Bettini.
  2. Mi ci farei.
  3. E si.
  4. Che gridava strepitando.
  5. Una certa.
  6. Da incantare.
  7. [Sulla Bettini si vedano anche i sonetti: Amalia ecc., 6 ott. 35; La matta ecc., 27 ott. 35; e La Lettricia, 12 nov. 35.- Per lei il Belli scrisse pure un gran numero di versi italiani, che ho trovato tra le sue carte, e de’ quali ecco qui un sonetto e tre sestine, molto graziosi. A intendere il sesto verso del sonetto, è necessario sapere che la Bettini, dovendo farsi ritrattare in miniatura dal pittore Rondoni, aveva voluto che il Belli fosse pre- sente, per distrarle la noia e farle un po’ il matto, e lo aveva perciò dichiarato aiutante o vicario del pittore.
    ALLA SIGNORA A. BETTINI.

      Poi che a la Valle omai taccion l’orchestra,
    La prosa e ogn’altro teatral negozio,
    E può restarvi qualche oretta d’ozio
    Da gittame, diciam, dalla finestra,

      A voi ne vengo, o mia donna e maestra,
    Io del vostro pittor vicario e sozio,
    A pregarvi per l’anima di Grozio
    Di voler mangiar meco una minestra.

    E Grozio appunto d’interpor mi piace,
    Perchè fra noi per questo invito mio
    Si tratta della guerra e della pace.

    Un rifiuto da un Belli non si tollera.
    Se mi dite di si, pago son io:
    Se mi dite di no, mi prendo collera.

    Per il dì 8 dicembre 1835.

      De jure belli et pacis: ecco l’opra
    Che Ugone Grozio fé’ immortale in terra;
    E si spiega, voltata sotto sopra,
    "Del dritto della pace e della guerra.„
    Or notate quel belli che son io.
    Dunque Grozio parlò del dritto mio.

      E se il mio dritto è tal, che il grande Ugone
    Per dichiararlo caricò un volume,
    Ch’io m’abbia, amica mia, sempre ragione
    È cosa che si vede senza lume.
    Perciò di dritto avendone d’avanzo,
    Io non v’invito più, vi voglio a pranzo.

      Vi voglio insomma a pranzo pel dì otto,
    E ve l’avviso innanzi un ottavario.
    Onde intanto mangiate a capo-sotto.
    Vale a dire un po’ più del necessario;
    E possiate ammannir l’azzimatura,
    Per presentarvi in abito e tonsura.]

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