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328 | Sonetti del 1846 |
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LI MALINCONTRI.
M’aricordo quann’ero piccinino
Che ttata[1] me portava fòr de porta
A rriccòjje er grespigno,[2] e cquarche vvorta
A rrinfrescacce co’ un bicchier de vino.
Bbe’, un giorno pe’ la strada de la Storta,[3]
Dov’è cquelo sfassciume d’un casino,
Ce trovàssimo stesa llì vviscino
Tra un orticheto una regazza morta.
Tata, ar vedella llì a ppanza per aria
Piena de sangue e cco’ ’no squarcio in gola,
Fesce un strillo e ppijjò ll’erba fumaria.[4]
E io, sibbè ttant’anni so’ ppassati,
Nun ho ppotuto ppiù ssentì pparola
De ggirà ppe’ li loghi scampaggnati.[5]
15 aprile 1846
- ↑ [Babbo. Dal lat. tata.]
- ↑ [La “cicerbita,„ che ha le foglie crespe, grespe.]
- ↑ [Osteria, e allora anche posta, a circa quindici chilometri dalla Porta del Popolo.]
- ↑ [Scappò via, scomparve. E questo modo di dire, comunissimo, proviene da un ravvicinamento del fumo di fumaria, che è realmente un’erba medicinale, dai Toscani chiamata anche fumosterno, alle frasi andare in fumo, scomparire come il fumo, ecc.]
- ↑ [Cioè: “per l’aperta campagna.„]
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