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Sonetti del 1833 211

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LE SCÉNNERE[1]

  Pe’ ffà da bbon cristiano, e sscontà in chiesa
Tante scopate, tanti pranzi e ccene,
E ttutte st’antre invanità tterrene,
Ho ppreso er cenneraccio a Ssant’Aggnesa.[2]

  Nun dubbità che ssò cascato bbene![3]
Ch’er prete, forze[4] pe’ ffamme[5] un’offesa,
In cammio[6] d’appricammene[7] una presa,
M’ha inzuccherato er ggruggno a mmano piene.

  Penza si a mmé, cche nun maggno cresscioni
Che mme faccino fà lla pisscia fresca,[8]
Me s’è scallato er pisscio a li cojjoni!

  Figuret’io che sò come una lesca![9]...
Ma cche vvòi dì? sti preti sò sturioni
Che sfassceno le rete a cchi li pesca.


Roma, 18 gennaio 1833

  1. Il dì delle ceneri.
  2. Chiesa al Foro agonale, oggi Piazza Navona, fabbricata da Innocenzio X sulle rovine dell’antico circo di Alessandro Severo.
  3. Cascar bene, vale: «aver buon successo in checchessia». Qui in modo ironico.
  4. Colla o chiusa: «forse».
  5. Farmi.
  6. In cambio.
  7. Di applicarmene.
  8. Questa è la virtù che si celebra de crescioni, ad alta voce, dai venditori per la città.
  9. Esca.
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