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246 Sonetti del 1834

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LE COLLERE.

  Nò... Tte dico de nò... Ggnente... Sso'[1] ssorda...
Nun te credo... Cuccù[2]... Ssò ttutt’inganni...
Oh sfiatete[3]... E cche sserve che tt’affanni?...
Me fai ride[4]... De che?![5]... Scusa bbalorda...

  Ve l’ho ppromessa? E cchi sse n’aricorda?
Passò cquer temp’Enea,[6] siggnor Giuvanni.
Me sce sò sbattezzata[7] pe’ ttant’anni...
Ma cche tte credi? de damme la corda?[8]...

  Bbravo! propio accusì: mme fa la luna...[9]
Vadi:[10] e cchi lo trattiè?[11] La porta è uperta.
Vadi puro a ttrovà[12] st’antra[13] furtuna.

  Anzi, sa cc’ha da fà?[14] Nne li carzoni,
pe’ ppassà ppresto una furtuna[15] scerta,
sce se metti[16] una nosce-a-ttre-ccantoni.[17]

14 marzo 1834

  1. Sono.
  2. Nel pronunziare questa parola, si deve imitare il suono che manda il cuculo; e vale negativa.
  3. Oh! sfiatati.
  4. Mi fai ridere.
  5. Come sarebbe a dire?!
  6. Questo emistichio di un verso di Metastasio è passato in proverbio per indicare non essere più tempo da tale o tal cosa. [Non è un emistichio: è un verso intero. V. in questo volume la nota 2 del sonetto: Antri tempi, ecc., 10 nov. 32.]
  7. Sbattezzarsi appresso ad una cosa significa: «perdervi attorno invano il tempo e la pazienza».
  8. Dar la corda: frase regalataci dal bell’uso dei tormenti nei giudizi criminali. L’uso è caduto, ma il vestigio della frase rimarrà chi sa quanto nella bocca del popolo, e sopravviverà forse ancora alla più tarda memoria di quelle barbarie. Qui vale: «dar tormento, tenere in orgasmo, in sospensione».
  9. [Ho le lune. Ma, oggi almeno, credo che un romanesco direbbe più volentieri: me fanno le lune, o anche semplicemente: me fanno, sottintendendo lune o buggere.]
  10. Vada.
  11. E chi lo trattiene?
  12. Vada pure a cercare.
  13. Quest’altra.
  14. Sa che deve fare? cioè: “faccia così.»
  15. Passar fortuna: farla.
  16. Ci si metta.
  17. La noce col guscio trivalve è riputata prodigioso amuleto per incontrar buona sorte.
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