< Pagina:Sonetti romaneschi VI.djvu
Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
Sonetti del 1831 | 61 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Sonetti romaneschi VI.djvu{{padleft:71|3|0]][1]
- ↑ rano.„ A Firenze è detto pure torcinaso, perchè si applica anche al naso. Ad Arezzo, invece, si chiama come a Roma torciorecchio solamente. Ma ai vocabolari comuni manca tanto l’uno che l’altro vocabolo. Il Rigutini-Fanfani però registra morsa, strumento che per lo stesso fine si applica al labbro superiore del cavallo.]
NOZZE E BATTESIMO.
So’ cquattro mesi sette giorni e un’ora,
Si[1] tt’aricordi, che pijjassi[2] mojje;
E già a cquesta je viengheno le dojje
4E un mammoccetto[3] vò pissciallo fòra?!
Cancheri che ppanzetta fijjatora!
Si ssempre de sto passo je se ssciojje,
Te sfica tanti fijji quante fojje
8Pònno bbuttà le scerque[4] a Ssantafiora.[5]
Beato té cche vedi a sti paesi
Certi accidenti novi de natura,
11Che nun pònno vedé mmanco l’Ingresi!
Uà:[6] cch’è stato?! Nun avé ppaura.
Un’ora, sette ggiorni e cquattro mesi
14So’ passati, e vviè fòra la cratura.
A Strettura, la sera de’ 29 settembre 1831 |
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.