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libro secondo 161

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Storia della Lega Lombarda.djvu{{padleft:167|3|0]]le coniavano e le spargevano nel popolo per trarlo nella loro sentenza.

Covava un grande incendio sotto queste scambievoli male contentezze del Papa e dell’Imperadore. Oneste persone si frapposero a calmarle per amor di pace, ma vi erano dei disonesti, che vi soffiavano dentro. L’indecenza dei modi, con cui erasi intestato Barbarossa scrivere al Pontefice, confortava anche più questi mediatori ad agire, perchè non inasprissero gli animi per difetto di riverenza. Arrigo Cardinale di S. Nereo ed Achilleo scriveva ad Eberardo Vescovo di Bamberga, questi al medesimo miti e riposati consigli. Erano entrambi uomini di buona volontà; e l’uno era attorno ad Adriano per calmarlo, l’altro a Federigo. Ma poco o nulla avvantaggiavano la cosa. V’erano per mezzo i cortigiani, che recavano legna al fuoco[1]; e Federigo, avvegnachè il Bambergense, come doveva, lo adombri con dolci parole, era uom bestiale per superbia, ed incontinenza di vendetta[2]. Questo buon Prelato mandò anche una lettera al Papa, umilmente pregandolo, volesse indirizzare al suo Imperadore placide e benigne parole[3]. Ma come poteva un Papa venire alle buone, se l’irriverente Principe si teneva sempre alle triste, scrivendo al medesimo lettere, che non recavano ombra di filiale suggezione[4].

  1. Parcat illis Deus, qui oleum quasi camino addentes, inter patrem et filium, inter regnum et Sacerdotium seminant discordias. Epist. Eberar. ad Henric. ap. Radev. lib. 2. c. 18.
  2. Qualis sit, vos scitis. Diligentes se diligit, aliis alienum se facit, quia nondum perfecte didicit inimicos diligere. Id. ib.
  3. Dignetur ex integro scribere vestra paternitas placide ac benigne filio nostro Domino nuper Imperatori. Epis. Eberar. ad Adr. ap. Radev. 12. c. 20.
  4. Nunc autem ex literis illis, quas celsitudini suae post reditum meum domino meo placuit destinare, quae videlicet nec stylum, nec antiquam consuetudinem Imperialium litteratum obtinebant, timemus multum, ne sit in diversa mutatus, et alia modo sibi sit facies, sensuque diversus. Ep. Henrici Cardin. ad Eberar. ap. Radev. l. 2. c. 18.
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