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MANZONI E CAVOUR[1]


Trasportiamoci colla fantasia ai primi mesi del 1801.

Virtualmente l’Italia era fatta. Ma l’inetto Re di Napoli stava tuttora chiuso tra le forti mura di Gaeta, sorvegliato e protetto da una squadra di navi francesi; e bisognava convocare i comizi elettorali per la costituzione del primo Parlamento nazionale. Cavour, che aborriva le dittature e lo reggenze precarie, aveva indette le elezioni pel 27 gennaio. Esse avevano un’eccezionale importanza. La prima Camera veramente italiana avrebbe potuto o confermare e rassodare le conquiste liberali, ovvero tutto compromettere. C’era da guardarsi dai reazionari e ritardatari non meno che dagli scavezzacollo. Il Mezzogiorno celava una incognita. La rivoluzione v’era stata compiuta dalla classe più eletta: quale sarebbe stato ora il responso popolare?

Cavour temette che la presenza del Re borbonico a Gaeta e delle navi francesi in quelle acque giovasse a qualche candidatura legittimista. Ma le relazioni diplomatiche del Piemonte con la Francia erano interrotte, e sul Gabinetto delle Tuileries premevano la Prussia, la Russia, l’Austria e la Spagna. Mercè l’opera sempre zelante e oculata del conte Vimercati, agente ufficioso del Re del Piemonte a Parigi, il grande Ministro indusse ancora una volta l’imperatore a venirci in aiuto, richiamando da Gaeta, alla vigilia delle elezioni, le navi francesi. Fu il colpo di grazia al borbonismo. Il voto dei comizi riuscì una magnifica affermazione di li-

  1. Questo discorso fu letto, il 14 novembre 1910, nell’aula magna della R. Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, per inaugurarvi la riapertura dei corsi.
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