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atto terzo.—sc. ii,iii. 119

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Quaggiù (perocchè in ogni ermo covile,
Credi, quel figlio di Satan crudele
M’inseguirà); se poco a Jefte il sangue
Fosse che nelle vene a’ tuoi parenti
Lasciarono i martirii e la vecchiezza —
Odi, frena i singhiozzi — e quest’affanno
Fosse presago del futuro, e infausto.
Retaggio, ahimè! tua divenisse un giorno
La paterna sfortuna; anco retaggio
Deh! siati allora la costanza! il padre
E la madre rammenta: e più rammenta
Il loro Iddio, ch’è degli afflitti il Dio!
Amalo, il prega, e a te verrà!
Ester.                                                       Mio padre,
Diletto padre!
Eleazaro.                         Di costanza io parlo,
E in lacrime mi stempro? Ah no; fralezza
Indegna è questa. Ester, coraggio! addio.
Da qualche monte, infra tre notti, il segno
Ti porgerò del mio soggiorno.
Ester.                                                       Abbraccia
La genitrice. I passi tuoi nascondi,
Ten prego, a ogn’uom; nel ritornarten, visto
Stamane eri da Jefte; anzi il torrente
Inselvarti non puoi?
Eleazaro.                                        Sì, più scoscesa,
Ma più celata è una salita: il masso
Tosto m’asconderà.[1]


SCENA III.

ESTER.


                                        Vigor, prestezza,
Scampo donagli, o ciel! — Di quai sciagure
Vaticinò? che dir volea? sciagura
Havvi maggior di questa? ambi raminghi

  1. S’aggrappa per un’erta dove sparisce subito dietro i macigni.
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