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atto quinto.—sc. iv. | 141 |
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Attestar l’innocenza, evvi chi il possa?
— Ognun si tace?
Ester. In cor ciascun l’attesta
La mia innocenza: e quel silenzio è lode
A conosciuta, irreprovevol donna.
Jefte.[1]Neghisi dunque, se attestar non puossi:
Io ve l’intimo, rispondete.[2] In nome
Te l’intimo d’Iddio: parla, o Israello:
Attestar puoi?
Popolo. No.
Jefte. Universale è il grido:
Interrogato esser vuol dunque il cielo.
(Un levita presenta al Pontefice un vaso d’argento, nel quale v’è l’offerta del marito prescritta dalla legge, cioè farina ordeacea.)
Jefte.[3]Questa è l’offerta d’Azaria!
(Due leviti sostengono Ester mentre il Pontefice va all’ara.)
Jefte.[4] Signore,
Dell’afflitto tuo servo il sacrificio
Gradito siati, e sulla terra adduca
(Dall’occhio tuo che tutto vede) il pieno
Conoscimento del cercato arcano.[5]
Come la donna, se con essa è fede,
Reca allo sposo suo gioia o salute,
Ma, se fè rompe, è del suo sposo angoscia....[6]
Polve così del tabernacol santa,
Che in questa tazza io mesco.... alla innocente
Pari, salute sii; pari alla rea,
Convertiti in dolore, e a lei sii morte![7]
Padri, se alcuna delle figlie vostre,
(Ove sia rea d’Eleazar la figlia)
- ↑ Al popolo.
- ↑ Silenzio.
- ↑ Riceve il sacro vaso, lo innalza, prende una mano d’Ester, la pone sull’offerta, e dice al Popolo.
- ↑ Prende dal vaso un pugno di farina, la getta sul fuoco che arde sull’ara, e pronunzia con lenta gravità questa preghiera.
- ↑ Pausa — Si rivolge al Popolo, e parla sempre con accento rituale.
- ↑ Prende con due dita un po’ di terra appiè dell’ara.
- ↑ Torna ad Ester, e la presenta al Popolo.