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atto quinto.—sc. iv. | 143 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:148|3|0]]
I miei spasmi di morte! orrendi tanto
Mai patimenti a reo mortal squarciate
Non abbiano le viscere! e sotterra
Sia egual, maggiore, eterno il mio martire!
Azaria.Oh spavento! no, il reo così non parla:
Ester![1]
Jefte.[2] Che ardisci tu?
Ester. M'affida Iddio
Che mia innocenza splenderà in Engaddi
Quando polve sarò. So che, inseguiti
Dagli sgherri di Jefte, a’ miei parenti
Poca speranza di salvezza è data.
Forse in sue mani, ahi! già cadeano: estinti
Già forse, a loro è tomba il cupo fondo
Irreparabil d’orrido dirupo,
Nè Engaddi mai di lor saprà! — ma Jefte
Tanti delitti da per sè non compie:
Non a tutti i suoi complici fia muta
D’ogni rimorso l’alta ora di morte:
Parleranno in quell’ora, attesteranno
Ch’era il genitor mio quello a cui diedi
Secreti accenti, e che immolata caddi
Senza delitto.
Azaria. Oh cielo! a me quel nappo!
Jefte.Ferma. E sì stolto alcuno evvi che ignori
La impudenza de’ rei?
Ester. L’amara tazza
A ber son pronta; ma se il vero io dissi,
E palese saravvi, oh! allor vogliate
Espïar la mia morte (onde Israello
Contaminato fia) con una grazia!
Popolo.Sì, sì!
Ester. L’odio crudel che in voi trasfuso
Il pontefice avea contro al mio padre,
Per amor mio, deh! cessi allor. Potrebbe
Di Jefte ai lacci esser fuggito: il pio
Amor paterno il trarrà forse allora