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156 | iginia d'asti |
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Roffredo. Dunque a Giano tu cedi?
Giano. Entrar tremando
In aringo dovrei dove sì eccelso
Eroe mi precedea: ma, se in non altre
Doti, in amar la mia patria l’agguaglio;
E il servirla m’è gloria, arduo qualunque
Patto ella imponga.
Evrardo. E che vuoi dir? rampogna
Forse mi vibri, quasi ch’io la patria
Servir negassi ov’ardue cose imponga?
Arnoldo. Vieni.
Evrardo.[1] Al fratel profondo ossequio porto;
Ed accolte in silenzio e ponderate
Ho sue gravi parole. Oh quanto dolce
Mi saria l’approvarle, e ragion quindi
Giusta sentir di riedere ai felici
Sospirati ozi di mia casa! Un vile
Però non son; nè, se la patria chieda
L’ultima goccia del mio antico sangue,
Fia ch’io neghi versarla.
Arnoldo.Ahi! velo a indegno
Mire non sien pomposi detti.
Evrardo. In mano
Iddio non tien dell’uom la sorte? a Dio
Chi sottrarsi ardirà? Tragga ei dall’urna
L’eletto suo: divota al sacro cenno
La fronte piegherò, pace ei mi doni,
O travagliati ancor giorni m’appresti.
Arnoldo.Dio non tentar: di cieche età fu sogno
Il creder che alle sorti empio fidando
Scoprir uom possa del Signor la mente.
Parla Iddio, sì, ma de’ mortali al core
Segreto parla: e tu, fratel, lo ascolta.
Ei ti dice, che orrendo il giuramento
Dal tuo labbro usciria, se il sovran ferro
Tu ripigliassi, allor che a snaturata
Legge sostegno le faresti. — Ah pensa,
- ↑ Interrompendo Giano che vorrebbe rispondere.