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atto primo. — sc. i. 157

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Giacchè a nulla tacer tu mi costringi,
Che tra i dispersi guelfi evvi taluno
Ch’ebbe parenti ghibellini — e il sangue
Che correa nello vene a que’ parenti
In nostra madre pur corse! Fu truce
Cosa il rischiar d’immerger tra le pugne
La lancia parricida in cotal sangue:
Ma poichè nelle pugne il ciel distolse
Il sacrilego colpo, or freddamente
Puoi tu giurar di spegnere il congiunto,
S’ei venisse mendico a ricovrarsi
Di nostra madre appo il sepolcro?
Evrardo.                                                            Taci.
Arnoldo.Sì, di Giulio favello. E pria che insano
Le guelfe armi vestisse, a lui promessa
Era da te la figlia: e non estinto
Della fanciulla misera nel core
Forse è l’amor. S’ei l’ami ognora, il sai,
Da quel di che prigion t’ebbe, e ti sciolse
Perchè d’Iginia padre.— Oh, delle offese
A mutuo obblio vengasi omai! ritorni
Il congiunto al congiunto.
Roffredo.                                             Ignora Arnoldo
Che il ragionar contro sancita legge
A null’uom lice? — Impor silenzio a tanto
Personaggio m’accora: e imporre il deggio. —
D’Evrardo e Giano i nomi agiti l’urna.[1]
Arnoldo.Fratello! — Ei più non m’ode. Ohimè! qual grande
Da ambizïon d’impero alma corrotta![2]
Roffredo.[3]Evrardo!
Arnoldo.               Ah, ch’io ’l temea!
Roffredo.(Presenta di nuovo la spada consolare ad Evrardo.)
Evrardo.                                                  Compiasi adunque
L’arduo nostro destin. — Giuro, che tutte
Difenderò le patrie leggi.

  1. A un senatore.
  2. Un senatore agita l’urna, e un altro estrae il nome.
  3. Prende il biglietto e lo apre.
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