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168 | iginia d'asti |
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Obliar che co’ rei stan gl’innocenti.
Io il cieco popol frenerò: distorre
Da questo albergo ogni ruina io bramo:
Ma se il furor, le tenebre, la forza
D’irresistibil moltitudin vano
Rendesse il pensier mio.... deh, fra 'l tumulto
L’amata Iginia non si trovi. — Orrendo
Arcano ti paleso: un vostro detto
Perder mi può ma s’io qui pur cadessi,
Non però certa men fia la vittoria
De’ congiurati guelfi. I truci editti
De’ tiranni son tardi: ascoso e lieve
Foco omai più non è: fiamma gigante,
Che tutte le astigiane alme divora,
Di vendetta e giustizia è il desir santo.
Divise, ignote, sì, ma numerose
Schiere di guelfi alla città fan siepe:
Nostra è la plebe entro le mura: un cenno
Soltanto aspetta. — Dubbia anco a me fosse
La fede vostra, o donne; anco tradito
Foss’io, — il ripeto — me perderei solo,
Non la fraterna impresa. Il dover mio
Doman co’ guelfi — oggi appo te mi chiama:
A loro e a te sacra è del par mia vita.
Iginia.[1]Oh madre mia! Parlar non posso: un gelo
Mi stringe il cor. — Che fia di noi? Sul padre,
O sull’amante, iniquo ferro pende:
Come dall’un rimoverlo, e non l’altro
Tradir?
Giulio. Miei giorni in tua balia son posti:
Bensì, ov’io pèra, al genitor rapisci
L’unica guelfa man, sovra lui pronta
Generoso a protendere uno scudo.
Iginia.Qual d’eroismo e di barbarie un misto
V’agita, o furibonde alme guerriere?
Non v’abborrite, e vi svenate: un gioco
Feroce è l’assalirsi, e il perdonarsi,
- ↑ Abbracciando Roberta.