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atto secondo. — sc. iii, iv. | 171 |
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SCENA III.
EVRARDO, ROFFREDO, GIANO, Guardie, e IGINIA.
Evrardo Eccola. — Figlia,
Sola tu qui?
Iginia. Padre....
Giano. Il tremor suo chiara
Mi fa la colpa: indizii certi io n’ebbi:
Giulio qui si nasconde.
Iginia. Ah no!
Giano. Si scorra
Ogni recesso dell’ostello.
Iginia. Ferma.
Padre, consol non sei? Tal soffri oltraggio
All’onor tuo?
Giano. Se più la figlia o il padre
Colpevol sia, giudicherà il senato.[1]
Evrardo. Temerario!
Roffredo. T’arresta: al consol fatta
Verrà ragion: ma provi il consol pria
Che reo di stato egli non è.[2]
SCENA IV.
I precedenti, fuorchè GIANO e le guardie.
Evrardo. Si ardisce
D’Evrardo dubitar? — Perfida! il vero
Celar non puoi. Come il vedesti? Parla:
Dove s’asconde? Il furor mio paventa.
Iginia.[3] Ahi! gli sgherri il trascinano. Mio Giulio![4]
- ↑ Cavando la spada.
- ↑ Fa cenno a Giano che colle guardie scorra il resto dell’appartamento.
- ↑ È in uno stato deplorabile di terrore: ella aspetta ad ogni istante che abbiano preso Giulio: guarda con occhi spalancati il padre, quasi non intendendo le sue parole: articola voci indistinte: l’affanno le tien chiuse le fauci. Finalmente ode che i soldati ritornano, ed esclama.
- ↑ Fa alcuni passi per andargli incontro e cade tramortita.