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ATTO TERZO.


Camera d'Iginia.


SCENA I.

IGINIA.

Chi viene? — Oh me delusa! Oh lunghe, atroci
Ore! Oh incertezza! Mute son le sale.
Roberta! Fidi servi! Ah, in carcer tutti!
E d’ogni parte io qui rinchiusa! — Oh Giulio,
Di te almen sapess’io. Chi sa in qual negra
Prigion ti strascinaro? — E non vantavi
Nella città possenti amici? Ah, l’arme
Ciascuno afferri e a liberarti accorra!
Guelfa io pur mi son fatta: astretta io sono,
Astretta, o padre, a desiarti vinto
(Purchè i tuoi giorni mi si serbin), vinto!
Ma che spero? A che illudersi? Più scampo
Giulio non ha,... più forse ei non respira!
O in quest’istante — barbari, fermate;
In me quei ferri!


SCENA II.

IGINIA è talmente fuori di sè, che non ode l' arrivo del padre. EVRARDO entra sdegnato, ma vedendola in tanta desolazione si commove alquanto.

Evrardo.                                    Siagurata! In pianto
Si strugge. — A trar dalle suo labbra il vero
L’ira freniam.[1]
Iginia.                          Chi veggio?[2] Deh, ch’io sappia....
Forza non ho....

  1. S’avanza.
  2. Gli va incontro in atto supplichevole.
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