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atto terzo. — sc. ii. 179

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Non avrò fin che al mio sguardo s’affaccia
Lo spettacolo orrendo. Ohimè! Funesto
Forse è ogni indugio. — A’ piedi tuoi mi prostro
Pietà, signor! T’affretta: alta hai possanza
Sovra la patria: e se a regnar tu aspiri,
Con una grazia il regno tuo cominci!
Col salvar l’innocenza! Atroci leggi
La tiranneggian: tu le sciogli!
Evrardo.[1]                                                       Troppo
Ti tollerai. Propiziarmi credi
Col vieppiù ognor disobbedir?
Iginia.                                                       L’angoscia
Mi trae di mente: deh perdona! Tutto
Ti narrerò: ma della madre poscia
I dì mi salva, o me con essa estingui.
Giulio qui il piede volse a farmi nota
Imminente congiura....
Evrardo.                                        Ah, vero è dunque?.
Colla frode apprestavasi al mio eccidio!
E tu — del mio assassin gl’incliti pregi
Adorando — la man tua promettevi
Alla man, che del mio sangue fumasse!
Iginia.Oh raccapriccio! oh truce odio patorno!
Evrardo.[2]Il di prefisso da’ ribelli?
Iginia.                                        È questo.
Evrardo.Che?
Iginia.          La vegnente notte.
Evrardo.                                             I nomi loro?
Iginia.Il popol tutto quasi.
Evrardo.                                        Oh cielo! I capi?
Iginia.Niun mi nomò.
Evrardo.                              M’udisti? I capi?
Iginia.                                                            Il giuro,
Niun mi nomò. Solo a pregarmi ei venne
Che fuor di questo albergo a tarda veglia
Questa sera io mi stessi, onde, se il volgo

  1. Con dispetto rialzandola.
  2. Con voce tremenda.
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