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180 | iginia d'asti |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:185|3|0]]
Qui furibondo avventasi, in periglio
Io non sia. Scudo a te pur farsi ei brama.
Evrardo.A me? — Superbo! Io sua pietà rifiuto.
Ancor domo io non son.... — Ma, oh rabbia! giova
Forse il valor, quando d’insidie è cinto? —
Nè fra i tormenti un detto anco i Solari
Proferian. — Ma che penso?... — Ah, della plebe
Con improvviso beneficio l’aura
Compriamo. — Oldrigo![1]
SCENA III.
Uno Scudiero, e detti.
Evrardo. Al popol vanne, e spargi
In ogni parte il voler mio. M’ascolta:
Ier finia ne’ miei campi, e copïosa
Sovr’ogni altr’anno fu la messe: intero
Dono al popol ne fo. Pietà mi desta
Di tanti prodi la miseria: e il novo
Mio consolato vo’ che sia di pace
E d’abbondanza e di letizia il regno.
A’ santi sacerdoti ogni infelice
Rechi il suo nome, e avrà da me sollievo. —
Accorto sei: divolghisi repente
Per le piazze l’annunzio, e....[2] Alcune ad arte
Beneficenze a nome mio diffondi.[3]
SCENA IV.
EVRARDO, e IGINIA.
Evrardo.Vil plebe! Ti conosco: aguzzi il ferro
Contro il possente: ma ti pasca, e il ferro
Di man ti cade, o a sua difesa il vibri .—