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182 | iginia d'asti |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:187|3|0]]
Fu al temerario in queste soglie. Ascolto
Non mi si dà. «Del console alla figlia
» Ferri, no, mai, per vil sospetto imporre
» Non oserassi (io sclamo): i benefizi
» D’Evrardo si rammentino: egli ha salva
» Più d’una volta la città: rispetto
» Abbiasi a tanto eroe.» Giano, onorando
Con ipocrite laudi il nome tuo,
«Oltraggio a tanto eroe fóra, soggiunge,
» Stimar che a lui, men della figlia, cara
» La repubblica sia.» — Gli animi vidi
Tutti a suo pro voltarsi, e ratto mossi
A darten cenno. — Anzi che rea si provi,
Lasciar non puote Evrardo mai dal seno
Una figlia strapparsi.
Evrardo.[1] Oh nuovo inciampo!
Che far? Tal’onta avermi? Alzerò dunque
Contro alle leggi il brando, e in un istante,
Dopo anni ed anni di sudor disperse,
Tante speranze...: e affanni.... e virtù.... e colpe?
Oh bivio orrendo!— [2] La mia figlia!...[3] Iniqua,
Mia rovina tu sei!
Arnoldo. Che ondeggi? Aduna
Tuoi fidi; al popol mostrati: d’un padre
Il grido al cor d’ognun penetra.
Evrardo.[4] Iginia,
Sì!
Arnoldo. Risolvesti?
Evrardo. Sì.
Arnoldo. Miseri noi!
Già strepito d’armati odesi. Ascosa
In più remota stanza....
Iginia. Eterno Iddio,
Pietà di me!