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186 iginia d'asti

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Non son vergate le sentenze? E quando
Degna la prole sua fosse di morte,
Dannarla non debb’ei?
Evrardo.                                        Cessa, maligno
Invido spirto, d’irritar con vile
Barbarie il dolor mio: sperasti un tempo
Di calpestarmi: t’ingannavi, e or mordi
Codardamente chi spregiar non puoi.
Cessa, ti dico, stanco io son.
Roffredo.                                                   Del grande
Alle sventure abbi rispetto, o Giano.
Raccolto ho i voti. Di rei figli a padre
Allontanarsi dal giudizio lice;
Ma il consol poscia vergherà il decreto
Qual siasi.
Evrardo.                    Il dover mio sacro m’è sempre.[1]
Roberta.Nè d’un guardo mi degni! A te la figlia,
Lei sola raccomando.
Evrardo.[2]                                         — Oh vista! — [3]
Iginia.                                                            Padre!


SCENA II.

IGINIA entra accompagnata da ARNOLDO.

Arnoldo. Ferma, contempla la tua figlia. — Ei fugge.
Iginia.E benedirmi pur non volle!
Arnoldo. In questo
Incontro io assai fidava: ah, il crudel teme
D’intenerirsi!
Iginia.[4]                         Oh madre!
Roberta.                                              Amata Iginia,
Alfin ti riabbraccio.
Iginia.                                        O dolce madre!
Più non vederti mai, lassa, io temea!

  1. S’avvia.
  2. Incontrandosi colla figlia.
  3. Parte.
  4. Che s’ era fermata alla porta, s’avanza, vede Roberta e le si getta fra le braccia.
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