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190 | iginia d'asti |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:195|3|0]]
Materni miei celarlo mai tu possa.
Iginia.Roberta, a sdegno tu mi movi: adorna
Esser non vo’ di sensi alti non miei:
A salvar te non penso: interrogata
Sono, e del ver, del vero sol mi curo.
E ove perir mè lasci il padre....
Roberta. Pronta,
Ben tel cred’io, tu a perir meco, il sei:
Ma il sublime proposto, amata figlia,
Compiere non ti lice. Al genitore
Tua vita devi: da te un giorno (eredi
Di tua virtù) figli la patria aspetta.
Io di prodi fui madre, e tutti in campo
Caduti son col padre lor: l’amaro
Calice di sventura io, sino al fondo,
Bevvi: dritto ho al riposo. Iddio mel porge
Lascia che grata io lo riceva.
Iginia. Oh madre!
Sì poco m’ami?... T’incresceva adunque
Il viver per Iginia?
Roberta. Io non m’illudo
Di speranza. Una vittima qui vuolsi:
Inesperta, e nol vedi? Or l’innocente
Almen non cada: lieve error fu il mio,
Ma error, cui pena è morte. Cessa: in breve
Tolta vecchiezza a te m’avria: egual pianto
Versato avresti su mia tomba! È poco,
Iginia, ciò che de’ miei dì tu perdi;
Ti consola....[1] Alle lagrime pon freno. Iginia.Oh madre mia!... Due volte io senza madre
Restar! no!
Roberta. Più sublime è il sacrificio:
Forte a morire, a viver nol saresti?
Qui la virtù! Qui il grave incarco imposto
Al mortal! Sopravvivere a’ suoi cari!
Ma breve è prova: jeri infanzia; e il crine
- ↑ Iginia prorompe in dirottissimo pianto, e abbraccia strettamente Roberta.