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atto quarto. — sc. ii. 191

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Diman canuto! E Iginia pur diritto
Avrà al riposo. Allora in grembo a Dio
Verrai l’amica a ricercar: deh, mai
Disgiunte più!... — Ma tu vacilli.... Figlia!....
Ella non m’ode!...
Iginia.[1]                                   Oh gioja!
Roberta.                                             Che?
Iginia.[2]                                                  Distesa
La ferrea corda è pur.
Arnoldo.                                              Che fia?
Iginia.                                                             Compressa
Orribilmente mi tenea la fronte:
E non udiste il suon? Come dall’arpa
Una corda si frange, e così.... — Dove
Son io? Perchè di negro ammanto intorno
Vestite le pareti?
Roberta.                                    Iginia!
Iginia.[3]                                                   Arretra!
Arnoldo. Smarrita ha la ragion!
Roberta.                                         Che accenna? Fissi
Gli occhi tien....
Iginia.[4]                                   Nol vedete? Il maggior seggio
De’ magistrati non è quel? Rispondi.
Roberta.Sì, del console è il seggio.
Iginia.                                                   Il padre mio
Un dì vi s’assideva: or mira.
Roberta.                                                        Vuoto

  1. In tanto conflitto d’affetti e di dolore è impazzita. Dopo il gran pianto che avea versato è rimasta come stupida ad ascoltare l’ultima parlata di Roberta, che solo in parte ha capito. Presa da una convulsione che le atteggia la fisonomia in guisa deplorabilmente funesta, guarda fiera or gli uni or gli altri. Fa pochi movimenti: accenna, toccandosi la fronte, che ivi sente una violenta pressura: respinge senz’asprezza la pietosa inquietudine di Roberta e d’Arnoldo. — Poi, tutt’a un tratto mette un
    riso che atterrisce gli astanti, e sclama:
  2. Il suo volto ha cessato subito d’essere ridente, ma ella parla con seria dolcezza e calma. I gesti sono meno composti che quando era in ragione, e quasi fanciulleschi.
  3. Con raccapriccio guardando vicino a Roffredo.
  4. Non dee mostrare orrore soverchio: nella sua parola vi sia spesso gravità e quiete.
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