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atto quarto. — sc. iii. | 193 |
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La legge udir, null’altro dessi.
Roffredo.[1] A noi
Fra breve il consol.— [2] Ben dicesti: e ascritto,
Ven prego, a colpa non mi sia, se dianzi
Mi commovea... Non però fiacco ho il petto:
Pari al zel vostro è per le leggi il mio.
Giano.Vano timor! Creder puoi tu che vile
Estimiam chi di fede a’ ghibellini
Tante prove recò? — Roffredo, eccelsi
Senatori, il periglio, ond’oggi a stento
La repubblica uscia, mostra de’ guelfi
Il pertinace orgoglio: a rintuzzarlo
Guai, se lento è il rigor! Guai, se speranza
Resta a’ futuri ribellanti! D’uopo
È non fermarsi alle minacce, d’uopo
Convincer co’ supplizi è, ch’a ogni patto
Esser qui vuolsi o ghibellino, o estinto.
Perciò d’Evrardo saggio era il consiglio
Onde poc’anzi a’ più ritrosi piacque
Assentir, che dannati anco i Solari
E Isnardo sien, benchè di ciò sol rei.
Che Giulio accolser nel lor tetto, e udìro
Confusamente d’una trama: è lesa
La legge, e basta: morir denno. Or pari
Di quelle donne non è il fallo? Io aspetto
Chi lo difenda; nessun l’osa. O Iginia
Siasi o l’altra che pria vide il guerriero,
Ciò che monta? Lo accolsero; ei lor disse
Del cospirar; lesa è la legge. Ai figli
D’ogni altro cittadin, del consol pari
I figli sono.
Roffredo. I voti diensi.[3] — [4]Morte! —