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196 | iginia d'asti |
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SCENA VII.
GIANO, e detto.
Giano.(Si ferma all’entrata.)
Evrardo.[1] Che aspetti?
Giano.[2]La sentenza: Roffredo a te mi manda.
Prudente senno vuol che all’alba tronche
Già sien le teste: così al popol ansa
D’imbaldanzir non dassi.
Evrardo. Oh ciel!
Giano. Tu ondeggi?
Evrardo.Barbaro! ah figli tu non hai.
Giano. Perito
Pe’ mei figli sarei. — Chi, mentre ancora
Trafugar si potea, chi semiviva
Trasse Iginia agli sgherri?
Evrardo. Oh duol!
Giano. Chi il vanto
D’inimitabil cittadin si dava?
Chi esempio altrui, con insultante orgoglio,
Sè ognor propon? Chi sè sol grande estima,
E abbietti gli altri? — Oh i tuoi dispregi antichi
Gran tempo in cor portai: ma giunta è l’ora
Che si rallegri l’odio mio, e prorompa;
Che te spregi io!
Evrardo. Tu?
Giano. Schiusi ecco due abissi:
Nè scampo v’ha; scagliarviti tu dèi.
Evrardo.Che?
Giano. O della propria figlia tua diventi
Il carnefice, e oggetto eccoti al mondo
Di perpetuo abbominio, e la tua infamia
A me vendetta è piena: o negar tenti
Alla legge (che il vuol) d’Iginia il sangue;
E reo di stato eccoti allor. Io primo,