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atto primo. — sc. ii. 221

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E il popol suo lo trucidava!
Ricciardo.                                                   A lui
Scudo, narrasi, fean la figlia sua
E il genero Ariberto: insieme oppressi
Sotto i pugnali rimanean del volgo.
Il Conte. Tutti sotterra eccoli dunque! Il figlio,
La nuora, il vecchio che si truce e lungo
Odio portommi e ch’io tanto odiava!
Quante volte la fama io di sua morte
Sospirai! Questa fama ecco; e letizia
No, ma spavento inondami, e dolore.
Ermano. Del cor dagli anni indebolito ascondi,
Ascondi, o padre, i gemiti. A disdegno
L’imperador trarrebbero, al suo orecchio
Ove giugnesser.
Il Conte.                               Che? Dovuta a lui
Era mia fè: la tenni. A lui dovuto
Non è ch’io esulti sugli estinti.
Ermano.                                                              Sposa,
Fra brevi dì rïabbraciarti spero.: A te, padre, l’affido.[1]


SCENA III.



IL CONTE, E GISMONDA.




Gismonda.                                              Omai mi lice
Più non tremar per esso. I traditori
Che tante volte insidïar suoi giorni
Più non son sulla terra.
Il Conte.                                              Odi, Gismonda,
Quella feroce gioja al tuo sembiante
E’ indecorosa, e irritami; e più assai
Perchè quel figlio che sotterra io piango
Amavi un dì.
Gismonda.                          L’amai, finchè di sposo
La man m’offria. Dovev’io amarlo ancora

  1. Parte, e Ricciardo l’accompagna
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