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atto terzo. — sc. vii, viii. 245

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So dell’imperador qual sia la mente:
Fellon mi chiameria, s’io d’Ariberto
Qui non m’impodestassi.
Il Conte.                                                       Impodestarsi
Dato è a null’uom di chicchessia, ov’io reggo.
Margrav.Dato a null’uom quando sovrano è il cenno?
Il Conte.Sovrano cenno non è questo. Augusto
Benignamente udrà d’un padre il grido
Che il figlio suo protegge.
Margrav.                                                       Ospizio dunque
Da te accettar mi vieta onor. Matura
I tuoi consigli. Chi Milan distrusse,
Temeria d’un castel la tracotanza?[1]
Il Conte.A me si audaci modi?
Ermano.                                             O padre, il forte
Non irritar: lo placheran miei detti.[2]
Ariberto.D’assalirti il Margravio arrischierebbe?
Il Conte.Altre difese il castel mio sostenne.[3]

SCENA VIII.


GABRIELLA E GISMONDA.


Gabriella.Gismonda, non fuggirmi; odi: commossa
Io ti vidi un istante, allor che il padre
Fra le braccia un dell’altro i figli suoi
Spinger volea.
Gismonda.                              Commossa io?
Gabriella.                                                          Non m’inganno.
E allor ch’al fratel suo disse Ariberto:
«Di fatti miei che fosser vili, udisti?» —
«No!» sclamò forte il Conte; e «no!» sfuggia
Quasi dal labbro tuo: «no!» sfavillando
Gli occhi diceano.
Gismonda.                                   Insana! Odio negli occhi

  1. Parte.
  2. Parte.
  3. Parte e seco Ariberto.
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