< Pagina:Tragedie (Pellico).djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.
246 gismonda da mendrisio

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:251|3|0]]

Di Gismonda sfavilla.
Gabriella.                                             Odio non era
In quell’istante: or sì! — Lo sguardo pure
Pósi io su di te, quando Ariberto disse:
«Ignori tu, fratel ch’a me i prigioni
Ridicean tue parole, e ch’io superbo
Era allorchè inteadea che m’appellavi
Nelle falangi milanesi il primo?»
No, non errai, Gismonda: impallidito
Era il tuo volto da pietà, anelava
Secretamente il petto, e dir parevi:
«Come non cede Ermano ancor?» — Ciò vidi,
E in me dolce speranza indi risorge
Che tu ad Ermano miti sensi ispiri.
Deh! il periglio tu scorgi; a dileguarlo
Sollecita t’adopra.
Gismonda.                                      E allor....
Gabriella.                                                       Da Ermano
Placato fia lo svevo duce, e quindi
L’imperador; in questo albergo pace
Regnerà tra’fratelli: a te di tanta
Felicità debitori essi e il padre
Ed io saremo e i figli miei....
Gismonda.                                                       Tuoi figli!
Tuoi figli i figli d’Ariberto!
Gabriella.                                                       Oh cielo!
Qual furor! che ti feci?
Gismonda.                                             Oh!.... che mi festi?....[1]
Gabriella.Così mi lascia? — Che sarà? In singhiozzi
Or prorompe....Infelice! Ah, ch’io la segua!

  1. Parte.
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.