< Pagina:Tragedie (Pellico).djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.
258 gismonda da mendrisio

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:263|3|0]]

Che simile a’ miei padri, armato io mora.
Ricciardo.Ritraggi il passo in queste sale. È speme
Ancor; fedeli sono i tuoi guerrieri;
Ed Ariberto vidi uscire illeso
Per una porta del casello, e tutti
Chiamare all’armi i villici. Qui intanto
Anima ai prodi è Gabriella. Il figlio
A niuno osa affidar: ella medesma
Con un braccio stringendolo, combatte
Valorosa coll’altro.— Ah, tu ferito
Sei....
Il Conte.               Tocco appena è della destra il carpo:
Colla sinistra ancor pugnar potrei.
Ma da stanchezza domo io son.[1] — Tu, vanne;
Securo parmi questo loco. Addoppia
Il tuo coraggio, o fido mio; difendi
Gabriella e suo figlio. Ove t’incontri
Nell’empio Erman, combattilo, ma pensa
Ch’egli pure è mio sangue. — E se Ariberto
Entro il castel co’ villici prorompa,
Della gioia guerriera alzate il grido,
Che all’orecchio mi giunga e mi conforti.


SCENA II.

IL CONTE.

Oh sventura! oh delitto! Una mia nuora
A’ nemici mi vende! E un figlio mio,
Quel lusinghiero Erman, ch’io tanto amava,
Per tenerezza verso cui, cessato
Io d’esser padre ad Ariberto aveva,
Al miglior de’ miei figli, Erman s’unisce
Co’ miei nemici, e dispogliarmi agogna!

  1. Siede.
Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.