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atto quinto. — sc. viii, ix. | 265 |
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Allora a te, non dove a me, apparía?
Frutto non son del mio furente zelo
Di que’ fratelli or le discordie, e il sangue,
Ond’ambo iniqui intridono le soglie
Ove son nati?
Gismonda. Ohimè! Vince il nemico.
Ohimè! Ariberto incalzano le lance.
Gabriella, difendilo, e felice
Possa tu al lato suo viver lungh’anni,
E vieppiù amata ed a valenti figli
Che lo somiglin glorïosa madre;
Mentre appo il mio sepolcro il viandante
Passerà con ischerno, e nominata
Da que’ tuoi figli e da Ariberto stesso
Mai non sarò senza spavento! — Iddio,
O Gabriella, ti rimerti! — Padre,
Non vedi? Benedicila: salvato
Ella ha Ariberto, ella ha respinto i ferri
Che lo cingean.
Il Conte. La benedico, e seco,
Ah, benedir te potess’io, Gismonda,
A cui dal cor sì generosa irrompe
D’affetti piena! A terra ecco il Margravio;
Ermano fugge. — Oh misero! Cessate!
Non lo uccidete: Ermano è figlio mio!
Per quelle volte ei si ritrae. La scala
Salisse almen, qui ricovrasse! Oh truci,
Non lo uccidete, anch’egli è figlio mio![1]
SCENA IX.
GISMONDA e il Bambino.
E s’ei morisse? — Oh sposo, io tua rovina
Oprato avrò? Ne raccapriccio... Eppure
Allor cessai d’esser malvagia, allora
Che disvelai tuo tradimento, e il padre
- ↑ Parte.