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atto secondo.—sc. III, iv. 287

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Olà, qui Arrigo traggasi.— Il suo scampo
Persüadergli sia tua cura. A lui
L’aspetto mio che a furor troppo il tragge
Sparmiar fia il meglio: in calma il tuo porrallo.
Sagace sii: con tutte armi il combatti
Che amor di donna inventar può. M’ intendi?
Fa’ ch’egli scriva al genitor; le chiavi
Del castel si depongano. Trionfa;
Niuna repulsa stanchiti; trionfa,
O i figli tuoi diman più non han padre.
Eloisa.Inumana parola!
Enzo.                                   Or ver favella.
Temer degg’io, ch’oltre il cognato, un’altra
A noi più sacra testa i fulmini osi
Della legge schernir? D’udirmi ancora
Ricusa il padre?
Eloisa.                                   Innanzi al convocato
Popolo udirti ei vuol. Ben di sue austere
Virtù nova sciagura io paventando,
Cercai più mite renderlo.— «Prostrarsi
Un dee, dic’ei, ma non a figlio il padre;
Prostrarsi a offeso padre il figlio debbe.»
'Enzo.L’inesorabil suo spirto conosco;
Dritto è che il mio conosca ei pure, e tosto.
Eloisa.Enzo! dove?...
Enzo.                              Mi lascia. Eccoti Arrigo.
Bada; fatale istante, o donna, è questo.
Più non ti dico. I figli tuoi rammenta.[1]


SCENA IV.

ARRIGO condotto da guardie, ed ELOISA.

Arrigo.Mi fugge? — Oh sposa! tu? Deh quest’affanno
Perchè? In pianto ti stempri, nè parola
Formar puoi. Mia Eloisa! mia Eloisa!
Del mio destin vieni tu nuncia?— Intendo;

  1. Parte.
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