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318 | leoniero da dertona. |
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Guerrieri. Viva Enzo! Fedeltà giuriamo.
Enzo.Auberto, Arrigo! Innanzi ad ambo, innanzi
A voi tutti che a lor foste compagni,
Investito mi piacque esser del novo
Poter mio, a fin che di clemenza a tutti
Questo giorno risplenda. A me il dovuto
Onor si presti, e dalla mente svelgo
Di vostra antica fellonia il ricordo;
Ed allo stesso Arrigo, autor primiero
Di fellonia, fo della vita dono.
Arrigo.A me s’aspetta, a me il risponder. — Prodi
Che il fortissimo loco e più il gagliardo
Cor fanno invitti, oltraggio all’onor fòra
Di voi, se il dover vostro io rammentassi,
Quasi ignoto ad alcun. Le labbra schiudo
Solo ad asseverar che al vostro è pari
D’Arrigo il cor; che, al dritto ed alla chiesa
Fedel servendo, di morire esulto.
Enzo.Taci, fellon.
Arrigo. Che alzata mai la spada
Contro allo Svevo non avrei, se i patti
Non infrangeva; che alta gloria sempre
Fummi in terra di grandi alme esser nato,
E che maggior tal gloria oggi mi splende.
Oggi che un padre a ciglio asciutto il sangue
Vedo pel patrio ben correr del figlio.
Auberto.Figlio! mio figlio!
Enzo. Il percussor s’avanzi
Colla scure, e ferisca.[1]
Guerrieri del castello. Ah!
Enzo.[2] — Il vostro grido
Presagio m’è di pentimento. — Auberto,
Egli è tuo figlio. Un giovenil delirio
La sua mente invadea; ma te canuto
Delirio par travolgerà? Il bollore
Degli anni a lui scusa sarà per anco,