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322 leoniero da dertona.

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Favellavi di morte e a pensamenti
M’esaltavi sublimi? Ancor lo stesso
Negl’istanti supremi Arrigo mira;
Imitami, o vegliardo. Un indegno atto
Non iscancelli di tua lunga vita
Le irreprensibili opre.
Leoniero.                                             Enzo,— l’altezza
Di qulle menti non ti scuote?— Figlio,
Pietà di me! Ribenedirti io bramo.
Doloroso odio è quel che a figlio un padre
Porta nell’ora d’un’immensa offesa!
Portar quel peso orribile io non posso.
Rïamarti vogl’io; ma rïamarti
Non saprò mai, se non ritorci il piede
Da tanta scelleraggine!
Enzo.                                             Ad Auberto,
Padre, volgi il tuo dir.
Leoniero.                                             Di te medesmo
Abbi pietà! L’anima mia presaga
Spaventevoli cose, ahi! nel futuro
Legge per te; nè lunge è quel futuro.
L’ira del ciel depreca, o figlio. Il detto
Pronuncia «Arrigo viva!» e a questo detto
Dio molte colpe ti perdona; in braccio
A figliuoli ed amici in tarda etate
Consolato morrai; nè il diurn’astro
Disseppellite da furor di plebe
L’ossa tue rivedrà. — Dica la storia,
Che per poter ribenedirlo, a’ piedi
Del figlio mi gettai.
Enzo.                                             Cessa,— ed Auberto
Quelle mura dischiudami, o vibrata
Dell’ora al primo squillo....[1]
Grido di molti.                                             Ah!
Enzo.                                                       Suona il bronzo.
Leoniero.Enzo! ferma! pietà!— Che invano?... — Oh cielo!
Ecco l’orribil punto! eccomi dove

  1. Le ore suonano. Il percussore s’avanza.
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