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atto quarto.— sc. V, VI. | 361 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:366|3|0]]
Che in alcun altro tempo, ahimè! la fanno,
Veri o foggiati sieno, i suoi delirj.
Ah da lei mi difendi!
Erode. Or nè d’amore
Nè di lamenti è fra noi tempo, o donna.
Nè per te veggo altro periglio ch’uno: —
Guai s’io scoprissi.... che colei che venne
Quasi ostaggio in mie mani, era ai felloni
E al lor profeta arcanamente avvinta![1]
SCENA VI.
SEFORA.
Oh rei sospetti! Oh ingrato! Indarno io l’amo;
Ei non può riamarmi; egli ama ancora
La mia rival; m’immolerà all’iniqua.
Ahi! qual fu, sciagurata, il mio consiglio
D’abbandonar l’unico appoggio mio,
Il genitor! Veggio la rete orrenda
In che m’avvolsi, e raccapriccio, e tremo.
Eppure — il dover mio non adempii? —
Viltà saria il pentirsene. Ah, tu infondi
Forza alla derelitta, o giusto Iddio!
Scagliarsi ne’ perigli è agevol cosa;
Ma rimanervi imperturbato, e gravi
Ad ogni istante più vederli, e alfine
Perder la speme dello scampo, e allora
Non paventar la morte! e inonorata
Schernita morte! — ah questo è l’arduo, il sommo
Del coraggio virile!... ed io son donna!
Questo coraggio, ahi mancami!... Quai tristi
Presentimenti! Oh me infelice! In tale
Agonia, che mi spinge? Oh! di vicina
Morte nuncio saria? — Più fervorosa
Degli oppressi all’amico unico, a Dio
- ↑ Parte.