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atto quinto.— sc. i. 365

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Ch’io udir solca di Sefora sull’arpa?
A rammentar quell’abborrita ognuno
Congiura adunque?
Erode.Altre armonie, te giuro,
Altre elle son. Tua fantasia per tutto
Sempre colei ti pingerà? In oblio
Como Erode la lascia: a che lasciarla
Nel pianto suo non vuoi?
Erodiade.                                        Nel pianto? — O Erode,
Sappi.... Nel pianto più non è! — Che parlo? —
Oh! eternare i suoi fremiti avess’io
Potuto almeno! i miseri miei giorni
Consolar col pensier ch’ella infelice
Più di me fosse! col pensier che al tempo
Orribil di mia morte, io tra i perduti
Incontrarla dovessi e del suo lutto
Senza fin rallegrarmi! — Ella superba
Fra i diletti di Dio s’asside in cielo,
Nè di cruciarla podestà a me resta!
Erode.Donna! — Me lasso! è fuor di sè.
Erodiade.                                                  Chi siedo
Incoronata al fianco tuo? Non io,
Non io son la regina? Oh rabbia! In vita,
In vita è dunque! Ah, scacciala. Non vedi
Qual foco vibra dalle sue pupille?
E che dir vuol? — Perchè ad un tempo esulta
Quasi beata, — e su te pianger sembra?
Erode.Deh con giulivi canti alla infelice
Questi affanni sgombrate![1]
Erodiade.                                             Oh non son questi
I suoni ond’echeggiaro un dì le vie
Di Galilea, quand’Erodiade sposa
Era al suo amato? Oh ripetete i dolci
Inni d’allor; rendetemi alle gioie
Mie nuzïali, alla stagion di tutto
L’ardir della superbia e dell’amore!

  1. si preludia
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