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atto quinto.— sc. I, II. 369

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Al mio cospetto irate larve, — ed una
Che più dell’altre m’atterrisce! Ah troppo
Durò la prova! Da me lunge l’arpe
Adulatrici!
Erode.                    Acquètati.
Erodiade.                                        Partite,
O compri lodator di chi spregiate,
Di chi vi spregia. A mia mestizia il colmo
Pon questa finta gioia. — Al cenno mio
Non si dileguan?— Solitudin voglio!
Amara è solitudine, ma impronta
Non ha di scherno almeno.
Erode.                                             Ognuno sgombri.[1]


SCENA II.

ERODE, ERODIADE, la Fanciulla.

Erode.Nè a te sperare in queste feste pace
Doveva io pur!
Erodiade.                         Nulla sperar dovevi
Per la devota da un Iddio nemico
A martirii d’inferno. Oh! chi mi scampa
Dall’odio suo? Più intercessor la terra
Dunque non ha per me? — Sefora! cessa...,
Cessa.... non t’avanzar verso mia figlia!
Non spruzzarla di sangue! — A te dinanzi
Mi prostro, e scudo a lei mi fo.[2] — Compiuto
Ecco nell’alma mia, già si superba,
L’avvilimento. — Erode, ov’è il profeta?
Chiamalo; ei ne assicuri, egli interceda;
Umilïarmi a lui vo’ ancora.
Erode.                                             Ah, vani
Colloquii non fur sempre? Esasperata
Più sempre nol cacciasti? — Ella non m’ode.—

  1. I festeggianti partono.
  2. Nell’abbracciare la figlia s’intenerisce. Piange dirottamente. Rialzasi con grande affanno.
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