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atto secondo. — sc. i. 53

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Gridando: «A messaggier, benchè infedele,
» Serbar conviensi reverenza; intatto,
» Se non fortuna, almen l’onor ci avanzi.»
Alla voce d’onor cento guerrieri,
Da me scostando il furibondo volgo,
M’accompagnàr sino alla porta illeso.
Eufemio. Oh rabbia! Teödor qui si strascini,
Per lui comincin mie vendette: in polve
Quindi Messina ridurrò. Perisca
L’innocente col reo: di Lodovica,
La rimembranza si scancelli; in petto
D’eroe sterminator loco non abbia
Altro affetto che l’ira. All’amor mio,
Donna, toglieanti l’are; oggi coll’are
Cadi tu dunque! Essere mia non puoi;
Nessun di te, non Dio medesmo, esulti!
Muori!... Che dico? Oh forsennatol Ah, vivi
Infelice donzella, e a te Messina
La non mertata sua salvezza debba!
Partirò, si; la maggior prova è questa
Ch’io dar ti possa del mio amor....
Almanzor.                                                             Che?
Eufemio.                                                                      Il voglio;
L’audace labbro non aprir. Si parta:
Vasta è la terra al furor nostro. Un nume,
Malgrado mio, nel cor mi parla; il braccio
Uom non dè’ alzar contro a sua patria mai.
Sì (celartel volea) possanza ignota
Questi detti or mi strappa.[1] Io quelle mura,
Che odiar vorrei, segretamente adoro;
Que’ templi augusti, ove al Fattor del mondo
Miei primi voti alzai, guardo.... e mi sento
Di tenerezza palpitar: rimembro
Il suono ancor di quelle sacre squille,
Quando liberator suo m’appellava
Tutta Sicilia... Oh fortunati giorni!

  1. Prende con amorevolezza Almanzor per la mano, e gli mostra la città.
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