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atto quinto. — sc. ii. | 81 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:86|3|0]]
Io distrussi le mie.
Saracini. Pèra!
Almanzor. Fermate.
Ossequio eterno gli giurammo.
Eufemio. Io posso
Da’ giuramenti vostri empi disciorvi.[1]
S’ebbi alcun dritto su di voi, ne investo
Il pro’ Almanzor: legge vi sien miei detti:
Novo sultan, condottier vostro ei sia!
Un Saracino grida e tutti gli altri ripetono.
Almanzor è il sultan!
Almanzor. No....
Eufemio. Vanamente
Schermir ti vuoi. L’ambizïon mia fera
Esca null’altra avea, fuorchè le fiamme
Dell’immenso amor mio; trascorso intero
Il mondo avrei, se ai limiti del mondo
Stavasi Lodovica: ahi, qui la perdo,
Qui cessa ogni mia speme, ogni mia forza,
Ogni sete di gloria e d’uman sangue:
Compiuto è il mio destin! Nè punto giova
Che tu (presago del mio intento) il braccio
Pietosamente mi rattenga....[2] E s’anco
Mi strappi il ferro, che ti giova? ho fermo
Di morir.
Almanzor. Deh!
Eufemio. L’ira de’ tuoi sfavilla
Orrendamente, mirali. E a che dunque
Mi trarresti alle navi? Io provocarli
Saprò così, che a lor faccia comando
Religïon di non udir tuoi cenni,
E trucidarmi a te dinanzi.
Almanzor.[3] Indarno
Vaneggia: niun l’ascolti.
Eufemio. Io non vaneggio: