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atto quinto. — sc. ii. 83

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A me di nuovo curvinsi gli alteri
Musulmani stendardi![1] Oh vista! Desso,
Teodoro! il mio re! Ben conoscesti
La smisurata mia voglia d’impero,
Cui niuna legge fatta argin si fòra;
Ed era santo il desir tuo (ma tardo
Fu) di vietar colla mia morte il lutto
Della tua casa e della patria e mio:
La morte d’un eroe salvato avrebbe
Intero un popol da foral sciagura.
Oh quale orror sento di me! No, speme
Nutrir di gloria più non posso. Abbietta,
Com’uom del volgo, inonorata fine
Qui avrommi; qui.... solo.... insepolto.... e forse
Infamemente, per le mute vie
Di quell’arsa città, da pochi miei
Concittadin superstiti, nel sangue
Strascinato.... e la mia polve esecranda
Sparsa ai venti ed al mar.... Che penso? E il nome
Di Lodovica.... pronunciar.... non oso?
Di quai cure diverso ingombrar fingo
La mente mia, se Lodovica piango,
Unica lei? Ma....[2] Non m’inganno?... sorge
Sovra il cubito suo l’estinto vecchio!...
Di rimembrar la figlia sua mi vieta!
Che dice? «Muori!» Obbedïente servo
Ridivenirti vo’; chi mi dà un ferro,
Ond’io sbrami tua sete?

  1. Prende una fiaccola che ardeva in terra e va per avviarsi, ma s’arresta colpito.
  2. Guarda Teodoro e retrocede atterrito.
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