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del sì[1], ei non ne tratta come tanti erroneamente, nè quasi d’una sola lingua nata comune a tutti, nè quasi d’un sol dialetto diventato pur comune; ma distingue e numera quattordici dialetti allor parlati nella Penisola[2]; esamina ed apprezza i meriti e demeriti di ciascuno, e ne trae poi la conseguenza: che di tutti dee conformarsi quella lingua comune ch’ei chiama illustre, cardinale, aulica e curiale[3]. Alla quale conseguenza attendendo unicamente tutti coloro che finora seguirono e commentarono Dante, e disputandone variamente, e forse interminabilmente, trascurarono di lodarlo e d’imitarlo in quanto egli dice sui dialetti d’Italia, che è forse la parte più osservabile di tutto il Trattato. Disprezzan gli uni e temono gli altri questo argomento. Ma non giovano i disprezzi contra a un fatto. Ed è fatto innegabile, che esistettero ed esistono da Dante in poi questi dialetti, e che furono non solo parlati, ma pure scritti in tutti i