< Paralipomeni della Batracomiomachia
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Canto Quarto Canto Sesto


CANTO QUINTO.



1


Signor, disse, che tale esser chiamato
     Dèi pel sangue che porti entro le vene,
     Il qual certo sappiam che derivato
     Da sorgente real ne’ tuoi perviene,
     E perchè di sposar fosti degnato
     Colei che sola in vita ancor mantiene,
     Caduti tutti gli altri augusti frutti,
     La famiglia del re Mangiaprosciutti;

2


Degno quant’altro alcun di regio trono
     T’estima il signor mio per ogni punto,
     Ma il sentiero, a dir ver, crede non buono
     Per cui lo scettro ad impugnar sei giunto.
     Tai, che a poter ben darlo atti non sono,
     T’hanno ai ben meritati onori assunto.
     Ma re fare o disfar, come ben sai,
     Altro che ai re non s’appartenne mai.

     

3


Se vedovo per morte il seggio resta
     Che legittimamente era tenuto,
     Nè la succession sia manifesta
     Per discendenza o regio altro statuto,
     Nè men per testamento in quella o in questa
     Forma dal morto re sia provveduto,
     Spontaneamente al derelitto regno
     S’adopran gli altri re di por sostegno:

4


O un successore è dato a quella sede
     Che sia da lor concordemente eletto,
     O partono essi re pieni di fede
     L’orbo stato fra lor con pari affetto,
     O chi prima il può far primo succede
     Per lo più chi più forte è con effetto,
     Cause genealogiche allegando,
     E per lo più con l’arme autenticando.

5


Re novo di lor man pesato e scosso,
     Dare i sudditi a sè mai non fur visti,
     Nè fòra assurdo al mio parer men grosso
     Che se qualche lavor de’ nostri artisti,
     Come orologio da portare indosso,
     O cosa tal che per danar s’acquisti,
     Il compratore elegger si vedesse
     Che lei portare e posseder potesse.

6


Negli scettri non han ragione o voto
     I popoli nessuno o ne’ diademi,
     Ch’essi non fer, ma Dio, siccome è noto.
     Anzi s’anco talvolta in casi estremi
     Resta il soglio deserto non che vôto
     Per popolari fremiti e per semi
     D’ire o per non so qual malinconia,
     Onde spenta riman la monarchia,

7


Al popol che di lei fu distruttore
     Cercan rimedio ancor l’altre corone,
     E legittimo far quel mal umore
     Quasi e rettificar l’intenzione,
     Destinato da lor novo signore
     Dando a quel con le triste o con le buone;
     Nè sopportan giammai che da sè stesso
     Costituirsi un re gli sia conesso.

8


Che se pur fu da Brancaforte ingiunto
     A’ tuoi di provveder d’un re novello,
     Non volea questo dir ch’eletto a punto
     Fosse il creato re questo nè quello;
     Ma non altro dar lor se non l’assunto
     Che i più capaci del real mantello
     Proponessero a’ piè de’ potentati,
     Che gli avriano a bell’agio esaminati.

9


Or dunque avendo alla virtù rispetto,
     Signor, che manifesta in te dimora,
     E sopra tutto a quei che prima ho detto
     Pregi onde teco il gener tuo s’onora,
     Non della elezion solo il difetto
     Supplire ed emendar, ma vuole ancora
     La maestà del mio padrone un segno
     Darti dell’amor suo forse più degno.

10


Perchè non pur con suo real diploma,
     Che valevol fia sempre ancor che tardo,
     E di color che collegati ei noma,
     Che il daran prontamente a suo riguardo,
     Riponendoti il serto in sulla chioma
     Legittimo farà quel ch’è bastardo,
     Che legittimità, cosa volante,
     Vien dal cielo o vi riede in un istante:

11


Ma il poco onesto e non portabil patto
     Che il popolo a ricever ti costrinse,
     A cui ben vede il mio signor che un atto
     Discorde assai dal tuo voler t’avvinse,
     Sconcio a dir vero e tal che quasi affatto
     La maestà di questo trono estinse,
     A potere annullar de’ topi in onta
     Compagnia t’offerisce utile e pronta.

12


Non solo i nostri trentamila forti
     Che nel suo nome tengono il castello
     Alla bell’opra ti saran consorti
     Di render lustro al tuo real cappello,
     Ma cinquecentomila che ne’ porti
     De’ ranocchi hanno stanza, io vo’ dir quello
     Esercito già noto a voi, che sotto
     Brancaforte in quei lochi s’è ridotto,

13


E che per volontà del signor nostro
     Così fermato in prossime contrade
     Aspetta per veder nel regno vostro
     Che movimento o cosa nova accade,
     Tosto che un cenno tuo gli sarà mostro,
     Il cammin prenderà della cittade,
     Dove i topi o ravvisti o con lor danno
     A servir prestamente torneranno.

14


Fatto questo, il diploma a te spedito
     Sarà, di quel tenor che si conviene.
     E un patto fra’ due re fia stabilito
     Quale ambidue giudicherete bene.
     Ma troppo oggi saria diminuito
     L’onor che fra re tutti il mio ritiene,
     Se un accordo da lui si confermasse
     Che con suddita plebe altri contrasse.

15


Nè certo ei sosterrà che d’aver fatto
     Onta agli scettri il popol tuo si vanti,
     E che che avvenga, il disdicevol patto
     Che tutti offender sembra i dominanti
     Combatterà finchè sarà disfatto,
     Tornando la città qual era innanti.
     Questa presso che ostil conclusione
     Ebbe del capitan l’orazione.

16


Rispose Rodipan, che udir solea
     Che stil de’ granchi era cangiare aspetto
     Secondo i tempi, e che di ciò vedea
     Chiara testimonianza or per effetto,
     Essendo certo che richiesto avea
     Senzacapo che un re subito eletto
     Fosse da’ topi allor che avea temenza
     D’altra più scandalosa esperienza:

17


Che stato franco avessero anteposto
     A monarchia di qualsivoglia sorte,
     E che l’esempio loro avesse posto
     Desiderio in altrui d’un’ugual sorte,
     La qual sospizion come più tosto
     S’avea tolta dal cor, di Brancaforte
     Condannava i trattati, e i chiari detti
     Torceva a inopinabili concetti.

18


Privo l’accordo del real suggello
     Nè re de’ topi alcun riconosciuto
     A sè poco gravar, ma che il castello
     Con maraviglia grande avria veduto
     Da genti granchie ritener che in quello
     Entrar per solo accordo avean potuto,
     Se non sapesse ai popoli presenti
     Esser negati i dritti delle genti;

19


Anzi i dritti comuni e di natura:
     Perchè frode, perfidia e qual si sia
     Pretta, solenne, autentica impostura,
     È cosa verso lor lecita e pia,
     E quelli soppiantar può con sicura
     Mente ogni estrania o patria monarchia,
     Che popolo e nessun tornan tutt’uno,
     Se intier l’ammazzi, non ammazzi alcuno.

20


Quanto al proposto affar, che interrogato
     Capo per capo avria la nazione,
     Non essendo in sua man circa lo stato
     Prender da sè deliberazione;
     E che quel che da lei fosse ordinato
     Faria come per propria elezione,
     Caro avendo osservar, poi che giurollo,
     Lo statuto. E ciò detto, accommiatollo.

21


L’altra mattina al general Consiglio
     Il tutto riferì personalmente,
     E la grandezza del comun periglio
     Espose e ragionò distesamente,
     E trovar qualche via, qualche consiglio,
     Qualche provvision conveniente
     Spesse volte inculcò, quasi sapesse
     Egli una via, ma dir non la volesse.

22


Arse d’ira ogni petto, arse ogni sguardo,
     E come per l’aperta ingiuria suole
     Che negl’imi precordii anche il codardo
     Fere là dove certo il ferir dole,
     Parve ancora al più vile esser gagliardo
     Vera vendetta a far non di parole.
     Guerra scelta da tutti e risoluto
     Fu da tutti morir per lo statuto.

23


Commendò Rodipan questo concorde
     Voler del popol suo con molte lodi,
     Morte imprecando a quelle bestie sorde
     Dell’intelletto e pur destre alle frodi;
     Purchè, disse, nessun da sè discorde
     Segua il parlar non poi gli atti de’ prodi:
     E soldatesche ed armi e l’altre cose
     Spettanti a guerra ad apprestar si pose.

24


Di suo vero od al ver più somigliante
     Sentir, del quale ogni scrittore è muto,
     Dirovvi il parer mio da mal pensante,
     Qual da non molto in qua son divenuto,
     Che per indole prima io rette e sante
     Le volontà gran tempo avea credute,
     Nè d’appormi così m’accadde mai,
     Nè di fallar poi che il contrario usai.

25


Dico che Rodipan di porre sciolta
     La causa sua dalla comun de’ topi
     In man de’ granchi avea per cosa stolta,
     Veduto, si può dir, con gli occhi propri
     Tanta perfidia in quelle genti accolta,
     Quanta sparsa è dagl’Indi agli Etiopi,
     E potendo pensar che dopo il patto
     Similmente lui stesso avrian disfatto.

26


Ma desiato avria che lo spavento
     Della guerra de’ granchi avesse indotto
     Il popolo a volere esser contento
     Che il seggio dato a lui non fosse rotto,
     Sì che spargendo volontario al vento
     La fragil carta, senza più far motto,
     Fosse stato a veder se mai piacesse
     Al re granchio adempir le sue promesse.

27


Così re senza guerra e senza patto
     Forse trovato in breve ei si saria,
     Da doppio impaccio sciolto in un sol tratto,
     E radicata ben la dinastia,
     Nè questo per alcun suo tristo fatto,
     Per tradimento o per baratteria,
     Nè violato avendo in alcun lato
     Il giuramento alla città giurato.

28


Queste cose, cred’io, tra se volgendo
     Meno eroica la plebe avria voluta.
     Per congetture mie queste vi vendo,
     Che in ciò la storia, come ho detto, è muta.
     Se vi paresser frasche, non intendo
     Tor fama alla virtù sua conosciuta.
     Visto il voler de’ suoi, per lo migliore
     La guerra apparecchiò con grande ardore.

29


Guerra tonar per tutte le concioni
     Udito avreste tutti gli oratori,
     Leonidi, Temistocli e Cimoni,
     Muzi Scevola, Fabi dittatori,
     Deci, Aristidi, Codri e Scipioni,
     E somiglianti eroi de’ lor maggiori
     Iterar ne’ consigli e tutto il giorno
     Per le bocche del volgo andare attorno.

30


Guerra sonar canzoni e canzoncine
     Che il popolo a cantar prendea diletto,
     Guerra ripeter tutte le officine,
     Ciascuna al modo suo col proprio effetto.
     Lampeggiavan per tutte le fucine
     Lancioni, armi del capo, armi del petto,
     E sonore minacce in tutti i canti
     S’udiano, e d’amor patrio ardori e vanti.

31


Primo fatto di guerra, a tal fatica
     Movendo Rubatocchi i cittadini,
     Fu di torri e steccati alla nemica
     Gente su del castel tutti i confini
     Chiuder donde colei giù dall’aprica
     Vetta precipitar sopra i vicini
     Poteva ad ogn’istante, e nella terra
     Improvvisa portar tempesta e guerra.

32


Poi dubitato fu se al maggior nerbo
     De’ granchi che verrebbe ormai di fuore
     Come torrente rapido e superbo
     Opporsi a mezza via fosse il migliore,
     Ovver nella città con buon riserbo
     Schernir, chiuse le porte, il lor furore.
     Questo ai vecchi piacea, ma parve quello
     Ai damerini della patria bello.

33


Come Aiace quel dì che di tenébre
     Cinte da Giove fur le greche schiere,
     Che di servar Patròclo alla funebre
     Cura fean battagliando ogni potere,
     Al nume supplicò che alle palpebre
     Dei figli degli Achei desse il vedere,
     Riconducesse il dì, poi, se volesse,
     Nell’aperto splendor li distruggesse;

34


Così quei prodi il popolar consiglio
     Pregar che la virtù delle lor destre
     Risplender manifesta ad ogni ciglio
     Potesse in parte lucida e campestre,
     Nè celato restasse il lor periglio
     Nel buio sen di quella grotta alpestre.
     Vinse l’alta sentenza, e per partito
     Fuori il granchio affrontar fu stabilito.

35


E già dai regni a rimembrar beati
     Degli amici ranocchi, che per forza
     Gli aveano insino allor bene albergati,
     Moveva quei della petrosa scorza
     Brancaforte co’ suoi fidi soldati,
     Per quel voler ch’ogni volere sforza
     Del lor padrone e re, che di gir tosto
     Sopra Topaia aveva al duce imposto.

36


Dall’altra parte orrenda ne’ sembianti
     Da Topaia movea la cittadina
     Falange che di numero di fanti
     A un milione e mezzo era vicina.
     Serse in Europa non passò con tanti
     Quando varcata a piè fu la marina.
     Coperto era sì lunge ogni sentiero
     Che la veduta si perdea nel nero.

37


Venuti erano al loco ove diè fine
     Alla fuga degli altri il Miratondo,
     Loco per praticelli e per colline
     E per quiete amabile e giocondo.
     Era il tempo che l’ore mattutine
     Cedono al mezzodì le vie del mondo,
     Quando assai di lontan parve rimpetto
     All’esercito alzarsi un nugoletto.

38


Un nugoletto il qual di mano in mano
     Con prestezza mirabile crescea
     Tanto che tutto ricoprire il piano
     Dover fra poco e intenebrar parea,
     Come nebbia talor cui di lontano
     Fiume o palude in bassa valle crea,
     Che per soffio procede, e la sua notte
     Campi e villaggi a mano a mano inghiotte.

39


Conobber facilmente i principali
     Quel di che il bianco nugolo era segno,
     Che dai passi nascea degli animali
     Che venieno avversari al misto regno.
     Però tempo ben parve ai generali
     Di mostrar la virtù del loro ingegno,
     E qui fermato il piè, le ardite schiere
     A battaglia ordinâr con gran sapere.

40


Al lago che di sopra io ricordai,
     Ch’or limpido e brillando al chiaro giorno
     Spargea del sol meridiano i rai,
     Appoggiâr delle squadre il destro corno,
     L’altro al poggio che innanzi anco narrai
     Alto ed eretto, e quanti erano intorno
     Lochi angusti e boscosi ed eminenti
     Tutti fêro occupar dalle lor genti.

41


Già per mezzo all’instabil polverio
     Si discernea de’ granchi il popol duro,
     Che quetamente e senza romorio
     Nella sua gravità venia sicuro.
     Alzi qui la materia il canto mio,
     E chiaro il renda se fu prima oscuro;
     Qui volentieri invocherei la musa,
     Se non che l’invocarla or più non s’usa.

42


Eran le due falangi a fronte a fronte
     Già dispiegate ed a pugnar vicine,
     Quando da tutto il pian, da tutto il monte
     Diersi a fuggir le genti soricine.
     Come non so, ma nè ruscel nè fonte
     Balza nè selva al corso lor diè fine.
     Fuggirian credo ancor, se i fuggitivi
     Tanto tempo il fuggir serbasse vivi.

43


Fuggiro al par del vento, al par del lampo,
     Fin dove narra la mia storia appresso.
     Solo di tutti in sul deserto campo
     Rubatocchi restò come cipresso
     Diritto, immoto, di cercar suo scampo
     Non estimando a cittadin concesso
     Dopo l’atto de’ suoi, dopo lo scorno
     Di che principio ai topi era quel giorno.

44


In lui rivolta la nemica gente
     Sentì del braccio suo l’erculea possa.
     A salvarla da quel non fu possente
     La crosta ancor che dura, ancor che grossa.
     Spezzavala cadendo ogni fendente
     Di quella spada, e scricchiolar fea l’ossa
     E troncava le branche e di mal viva
     E di gelida turba il suol copriva.

45


Così pugnando sol contro infiniti
     Durò finchè il veder non venne manco.
     Poi che il sol fu disceso ad altri liti,
     Sentendo il mortal corpo afflitto e stanco,
     E di punte acerbissime feriti,
     E laceri in più parti il petto e il fianco,
     Lo scudo ove una selva orrida e fitta
     D’aste e d’armi diverse era confitta,

46


Regger più non potendo, ove più folti
     Gl’inimici sentia, scagliò lontano.
     Storpiati e pesti ne restaron molti,
     Altri schiacciati insucidaro il piano.
     Poscia gli estremi spiriti raccolti
     Pugnando mai non riposò la mano
     Finchè densato della notte il velo
     Cadde, ma il suo cader non vide il cielo.

47


Bella virtù, qualor di te s’avvede,
     Come per lieto avvenimento esulta
     Lo spirto mio: nè da sprezzar ti crede
     Se in topi anche sii tu nutrita e culta.
     Alla bellezza tua ch’ogni altra eccede,
     O nota e chiara o ti ritrovi occulta,
     Sempre si prostra: e non pur vera e salda,
     Ma imaginata ancor, di te si scalda.

48


Ahi ma dove sei tu? sognata o finta
     Sempre? vera nessun giammai ti vide?
     O fosti già coi topi a un tempo estinta,
     Nè più fra noi la tua beltà sorride?
     Ahi se d’allor non fosti invan dipinta,
     Nè con Teseo peristi o con Alcide,
     Certo d’allora in qua fu ciascun giorno
     Più raro il tuo sorriso e meno adorno.

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