< Paralipomeni della Batracomiomachia
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Canto Terzo Canto Quinto


CANTO QUARTO.



1


Maraviglia talor per avventura,
     Leggitori onorandi e leggitrici,
     Cagionato v’avrà questa lettura.
     E come son degli uomini i giudici
     Facili per usanza e per natura,
     Forse, benchè benevoli ed amici,
     Più di un pensiero in mente avrete accolto,
     Ch’essere io deggia o menzognero o stolto;

2


Perchè le cose del topesco regno,
     Che son per vetustà da noi lontane
     Tanto, che come appar da più d’un segno,
     Agguaglian le antichissime indiane,
     I costumi, il parlar, l’opre, l’ingegno,
     E l’infime faccende e le sovrane,
     Quasi ieri o l’altr’ier fossero state,
     Simili a queste nostre ho figurate.

     

3


Ma con la maraviglia ogni sospetto
     Come una nebbia vi torrà di mente
     Il legger, s’anco non avete letto,
     Quel che i savi han trovato ultimamente,
     Speculando col semplice intelletto
     Sopra la sorte dell’umana gente,
     Che d’Europa il civil presente stato
     Debbe ancor primitivo esser chiamato.

4


E che quei che selvaggi il volgo appella
     Che nei più caldi e nei più freddi liti
     Ignudi al sole, al vento, alla procella,
     E sol di tetto natural forniti,
     Contenti son, da poi che la mammella
     Lasciâr, d’erbe e di vermi esser nutriti,
     Temon l’aure e le frondi, e che disciolta
     Dal sol non caggia la celeste volta;

5


Non vita naturale e primitiva
     Menan, come fin qui furon creduti,
     Ma per corruzion sì difettiva,
     Da una perfetta civiltà caduti,
     Nella qual come in propria ed in nativa
     I padri dei lor padri eran vissuti:
     Perchè stato sì reo come il selvaggio
     Estimar natural non è da saggio:

6


Non potendo mai star che la natura,
     Che al ben degli animali è sempre intenta,
     E più dell’uom, che principal fattura
     Esser di quella par che si consenta
     Da tutti noi, sì povera e sì dura
     Vita, ove pur pensando ei si sgomenta,
     Come propria e richiesta e conformata
     Abbia al genere uman determinata.

7


Nè manco sembra che possibil sia
     Che lo stato dell’uom vero e perfetto
     Sia posto in capo di sì lunga via
     Quanta a farsi civile appar costretto
     Il gener nostro a misurare in pria,
     U’ son cent’anni un dì quanto all’effetto:
     Sì lento è il suo cammin per quelle strade
     Che il conducon dal bosco a civiltade.

8


Perchè ingiusto e crudel sarebbe stato,
     Nè per modo nessun conveniente,
     Che all’infelicità predestinato,
     Non per suo vizio o colpa, anzi innocente,
     Per ordin primo e natural suo fato,
     Fosse un numero tal d’umana gente,
     Quanta nascer convenne e che morisse
     Prima che a civiltà si pervenisse.

9


Resta che il viver zotico e ferino
     Corruzion si creda e non natura,
     E che ingiuria facendo al suo destino
     Caggia quivi il mortal da grande altura;
     Dico dal civil grado, ove il divino
     Senno avea di locarlo avuto cura:
     Perchè se al ciel non vogliam fare oltraggio,
     Civile ei nasce, e poi divien selvaggio.

10


Questa conclusion che, ancor che bella,
     Parravvi alquanto inusitata e strana,
     Non d’altronde provien se non da quella
     Forma di ragionar diritta e sana
     Ch’a priori in iscola ancora s’appella,
     Appo cui ciascun’altra oggi par vana,
     La qual per certo alcun principio pone,
     E tutto l’altro a quel piega e compone.

11


Per certo si suppon che intenta sia
     Natura sempre al ben degli animali,
     E che gli ami di cor, come la pia
     Chioccia fa del pulcin ch'ha sotto l’ali:
     E vedendosi al tutto acerba e ria
     La vita esser che al bosco hanno i mortali.
     Per forza si conchiude in buon latino,
     Che la città fu pria del cittadino.

12


Se libere le menti e preparate
     Fossero a ciò che i fatti e la ragione
     Sapessero insegnar, non inchinate
     A questa più che a quella opinione,
     Se natura chiamar d’ogni pietate
     E di qual s’è cortese affezione
     Sapesser priva, e de’ suoi figli antica
     E capital carnefice e nemica;

13


O se piuttosto ad ogni fin rivolta,
     Che al nostro che diciamo o bene o male;
     E confessar che de’ suoi fini è tolta
     La vista al riguardar nostro mortale,
     Anzi il saper se non da fini sciolta
     Sia veramente, e se ben v’abbia, e quale;
     Diremmo ancor con ciascun’altra etade
     Che il cittadin fu pria della cittade.

14


Non è filosofia se non un’arte
     La qual di ciò che l’uomo è risoluto
     Di creder circa a qualsivoglia parte,
     Come meglio alla fin l’è conceduto,
     Le ragioni assegnando empie le carte
     O le orecchie talor per instituto,
     Con più d’ingegno o men, giusta il potere
     Che il maestro o l’autor si trova avere.

15


Quella filosofia dico che impera
     Nel secol nostro senza guerra alcuna,
     E che con guerra più o men leggera
     Ebbe negli altri non minor fortuna,
     Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera
     La mia mente oso dir, portò ciascuna
     Facoltà nostra a quelle cime il passo
     Onde tosto inchinar l’è forza al basso.

16


In quell’età, d’un’aspra guerra in onta,
     Altra filosofia regnar fu vista,
     A cui dinanzi valorosa e pronta
     L’età nostra arretrossi appena avvista
     Di ciò che più le spiace, e che più monta,
     Esser quella in sostanza amara e trista;
     Non che i principii in lei nè le premesse
     Mostrar false da sè ben ben sapesse;

17


Ma false o vere, ma disformi o belle
     Esser queste si fosse o no mostrato,
     Le conseguenze lor non eran quelle
     Che l’uom d’aver per ferme ha decretato,
     E che per ferme avrà fin che le stelle
     D’orto in occaso andran pel cerchio usato;
     Perchè tal fede in tali o veri o sogni
     Per sua quiete par che gli bisogni.

18


Ed ancor più, perchè da lunga pezza
     È la sua mente a cotal fede usata,
     Ed ogni fede a che sia quella avvezza
     Prodotta par da coscienza innata:
     Che come suol con grande agevolezza
     l’usanza con natura esser cangiata,
     Così vien facilmente alle persone
     Presa l’usanza lor per la ragione.

19


Ed imparar cred’io che le più volte
     Altro non sia, se ben vi si guardasse,
     Che un avvedersi di credenze stolte
     Che per lungo portar l’alma contrasse,
     E del fanciullo racquistar con molte
     Cure il saper ch’a noi l’età sottrasse;
     Il qual già più di noi non sa nè vede,
     Ma di veder nè di saper non crede.

20


Ma noi, s’è fuor dell’uso, ogni pensiero
     Assurdo giudichiam tosto in effetto,
     Nè pensiam ch’un assurdo il mondo e il vero
     Esser potrebbe al fral nostro intelletto:
     E mistero gridiam, perch’a mistero
     Riesce ancor qualunque uman concetto;
     Ma i misteri e gli assurdi entro il cervello
     Vogliam foggiarci come a noi par bello.

21


Or, leggitori miei, scendendo al punto
     Al qual per lunga e tortuosa via
     Sempre pure intendendo, ecco son giunto,
     Potete ormai veder che non per mia
     Frode o sciocchezza avvien che tali appunto
     Si pingan nella vostra fantasia
     De’ topi gli antichissimi parenti
     Quali i popoli son che abbiam presenti:

22


Ma procede da ciò, che il nostro stato
     Antico è veramente e primitivo
     Non degli uomini sol, ma in ogni lato
     D’ogni animal che in aria o in terra è vivo,
     Perchè ingiusto saria che condannato
     Fosse di sua natura a un viver privo
     Quasi d’ogni contento e pien di mali
     L’interminato stuol degli animali.

23


Per tanto in civiltà, data secondo
     Il grado naturale a ciascheduna,
     Tutte le specie lor vennero al mondo,
     E tutte poscia da cotal fortuna
     Per lor proprio fallir caddero in fondo,
     E infelici son or; nè causa alcuna
     Ha il ciel però dell’esser lor sì tristo,
     Il qual bene al bisogno avea provvisto.

24


E se colma d’angoscia e di paura
     Del topolin la vita ci apparisce,
     Il qual mirando mai non s’assicura,
     Fugge e per ogni crollo inorridisce,
     Corruzion si creda e non natura
     La miseria che il topo oggi patisce,
     A cui forse il menâr quei casi in parte
     Che seguitando narran queste carte.

25


E la dispersion della sua schiatta
     Ebbe forse d’allor cominciamento;
     La qual raminga in sulla terra è fatta,
     Perduto il primo e proprio alloggiamento,
     Come il popol giudeo, che mal s’adatta,
     Esule, sparso, a cento sedi e cento,
     E di Solima il tempio e le campagne
     Di Palestina si rammenta e piagne.

26


Ma il novello signor giurato ch’ebbe
     Servar esso e gli eredi eterno il patto,
     Incoronato fu come si debbe;
     E il manto si vestì di pel di gatto,
     E lo scettro impugnò che d’auro crebbe,
     Nella cui punta il mondo era ritratto,
     Perchè credeva allor del mondo intero
     La specie soricina aver l’impero.

27


Dato alla plebe fu cacio con polta,
     E vin vecchio gittâr molte fontane,
     Gridando ella per tutto allegra e folta:
     Viva la carta e viva Rodipane:
     Tal ch’eccheggiando quell’alpestre volta
     Carta per tutto ripeteva e pane,
     Cose al governo delle culte genti,
     Chi le sa ministrar, sufficienti.

28


Re de’ topi costui con nuovo nome,
     O suo trovato fosse o de’ soggetti,
     S’intitolò, non di Topaia, come
     Propriamente in addietro s’eran detti
     I portatori di quell’auree some.
     Cosa molto a notar, che negli effetti
     Differisce d’assai, benchè non paia,
     S’alcun sia re de’ topi o di Topaia.

29


La noto ancor, però che facilmente
     Nella cronologia non poco errato
     Potrebbe andar chi non ponesse mente
     A questo metafisico trovato,
     E creder che costui primieramente
     Rodipan fra quei re fosse nomato,
     Quando un Rodipan terzo avanti a questo
     Da libri e da monete è manifesto.

30


Primo fra i re de’ topi; ma contando
     Quei di Topaia ancor, s’io bene estimo,
     Fu quarto Rodipan. Questo ignorando
     Può la cronologia da sommo ad imo
     Andar sossopra. A ciò dunque ovviando,
     Notate che costui Rodipan primo,
     E il notin gli eruditi e i filotopi,
     Fra i re de’ topi fu, non fra i re topi.

31


Non era il festeggiar finito ancora
     Quando giunse dal campo il messaggero,
     Non aspettato ormai, che la dimora
     Sua lunga aveane sgombro ogni pensiero;
     Nè desiato più, che insino allora
     Soleano i sogni più gradir che il vero.
     Sogni eran gli ozi brevi e l’allegria,
     Ver ciò che il conte a rapportar venía.

32


Immantinente poi che divulgato
     Fu per fama in Topaia il suo ritorno,
     Interrotto il concorso ed acchetato
     Il giulivo romor fu d’ogni intorno.
     Tristo annunzio parea quel che bramato
     E sospirato avean pur l’altro giorno,
     Perchè già per obblio fatte sicure
     Destava l’alme ai dubbi ed alle cure.

33


Prestamente il legato a Rodipane
     L’umor del granchio e l’aspre leggi espose,
     E nel maggior consiglio la dimane
     Per mandato del re l’affar propose.
     Parver l’esposte leggi inique e strane,
     Fatti sopra vi fur comenti e chiose;
     Alfin per pace aver dentro e di fuore
     A tutto consentir parve il migliore.

34


Tornò nel campo ai rigidi contratti
     Il conte con famigli e con arnesi,
     E l’accordo fermò secondo i patti
     Che già per le mie rime avete intesi.
     Soscriver non sapea, nè legger gli atti
     Il granchio, arti discare a’ suoi paesi;
     Ma lesse e confermò con la sua mano
     Un ranocchio che allor gli era scrivano.

35


Ratto uno stuol di trentamila lanzi
     Ver Topaia lietissimo si mosse,
     A doppie paghe e più che doppi pranzi,
     Benchè rato l’accordo ancor non fosse;
     E nella terra entrò, dietro e dinanzi
     Schernito per le vie con le più grosse
     Beffe che immaginar sapea ciascuno;
     Non s’avvedendo quelli in modo alcuno

36


Nel superbo castel furo introdotti,
     Dove l’insegna lor piantata e sciolta,
     Poser mano a votar paiuoli e botti,
     E sperar pace i topi un’altra volta.
     Lieti i giorni tornâr, liete le notti,
     Ch’ambo sovente illuminar con molta
     Spesa fece il comun per l’allegria
     Dell’acquistata nova monarchia.

37


Ma quel che più rileva, a far lo stato
     Prospero quanto più far si potesse
     Del popolo in comune e del privato,
     Fama è che cordialmente il re si desse
     Il qual subito poi che ritornato
     Fu Leccafondi, consiglier lo elesse,
     Ministro dell’interno e principale
     Strumento dell’impero in generale.

38


Questi a rimover l’ombra ed all’aumento
     Di civiltà rivolse ogni sua cura,
     Sapendo che con altro fondamento
     Prosperità di regno in piè non dura,
     E che civile e saggia, il suo contento
     La plebe stessa ed il suo ben procura
     Meglio d’ogni altro, nè favor nè dono
     Fuor ch’esser franca gli è mestier dal trono.

39


E bramò che sapesse il popol tutto
     Leggere e compùtar per disciplina,
     Stimando ciò cred’io maggior costrutto
     Che non d’Enrico quarto la gallina.
     Quindi nella città fe da per tutto
     Tante scole ordinar, che la mattina
     Piazze, portici e vie per molti dì
     Non d’altro risonâr che d’a, bi, ci.

40


Crescer più d’una cattedra o lettura
     Anco gli piacque a ciaschedun liceo,
     Con più dote che mai per avventura
     Non ebbe professor benchè baggeo.
     Dritto del topo, dritto di natura,
     Ed ogni dritto antegiustinianeo,
     E fuvvi col civil, col criminale,
     Esposto il dritto costituzionale.

41


E già per la fidanza ond’è cagione
     All’alme un convenevol reggimento,
     D’industria a rifiorir la nazione
     Cominciava con presto accrescimento.
     Compagnie di ricchissime persone
     Cercar da grandi spese emolumento,
     D’orti, bagni, ginnasj e ciascun giorno
     Vedevi il loco novamente adorno.

42


Vendite nuove ed utili officine
     Similmente ogni dì si vedean porre,
     Merci del loco e merci pellegrine
     In copia grande ai passeggeri esporre,
     Stranie commodità far cittadine,
     Novi teatri il popolo raccorre,
     Qui strade a raccorciar la plebe intenta,
     Là d’un palagio a por le fondamenta.

43


Concorde intanto la città con bianchi
     Voti il convegno ricevuto avea,
     E che di quello dal signor de’ granchi
     Fosse fatto altrettanto si credea.
     Andando e ritornando eran già stanchi
     Più messi, e nulla ancor si conchiudea,
     Tanto che in fin dei principali in petto
     Nascea, benchè confuso, alcun sospetto.

44


Senzacapo re granchio il più superbo
     De’ prenci di quel tempo era tenuto,
     Nemico ostinatissimo ed acerbo
     Del nome sol di carta o di statuto,
     Che il poter ch’era in lui senza riserbo
     Partir con Giove indegno avria creduto.
     Se carta alcun sognò dentro il suo regno,
     Egli in punirlo esercitò l’ingegno.

45


E cura avea che veramente fosse
     Con perfetto rigor la pena inflitta,
     Nè dalle genti per pietà commosse
     Qualche parte di lei fosse relitta,
     E il numero e il tenor delle percosse
     Ricordava, e la verga a ciò prescritta.
     Buon sonator per altro, anzi divino
     La corte il dichiarò di violino.

46


Questi, poichè con involute e vaghe
     Risposte ebbe gran tempo ascoso il vero,
     Al capitan di quei che doppie paghe
     Già da’ topi esigean senza mistero
     Ammessi senza pugna e senza piaghe,
     Mandò, quando gli parve, un suo corriero.
     Avea quel capitan fra i parlatori
     Della gente de’ granchi i primi onori:

47


Forte ne’ detti sì che per la forte
     Loquela il dimandâr Boccaferrata.
     Il qual venuto alle reali porte
     Chiese udienza insolita e privata.
     Ed intromesso, fe, come di corte,
     Riverenza, per granchio, assai garbata:
     Poi disse quel che, riposato alquanto
     Racconterò, lettor, nell’altro canto.

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