< Paralipomeni della Batracomiomachia
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Canto Secondo Canto Quarto


CANTO TERZO.



1


Intanto Rubatocchi avea ridotte
     Le sue schiere in Topaia a salvamento,
     Dove per più d’un giorno e d’una notte
     Misto fu gran dolor con gran contento.
     Chi gode in riveder, chi con dirotte
     Lacrime chiama il suo fratello spento,
     Altri il padre o il marito, altri la prole,
     Altri del regno e dell’onor si dole.
     

2


Era Topaia, acciò che la figura
     E il sito della terra io vi descriva,
     Tutta con ammirabile struttura
     Murata dentro d’una roccia viva,
     La qual’era per arte o per natura
     Cavata sì, che una capace riva
     Al sol per sempre ed alle stelle ascosta
     Nell’utero tenea come riposta.

3


Ricordivi a ciascun se la montagna
     Che d’Asdrubale il nome anche ritiene,
     Là ’ve Livio e Neron per la campagna
     Sparse dell’Affrican l’armi e la spene,
     Varcaste per la strada ove compagna
     L’eterea luce al viator non viene,
     Sotterranea, sonora, onde a grand’arte
     Schiuso è il monte dall’una all’altra parte:
     

4


O se a Napoli presso, ove la tomba
     Pon di Virgilio un’amorosa fede,
     Vedeste il varco che del tuon rimbomba
     Spesso che dal Vesuvio intorno fiede,
     Colà dove all’entrar subito piomba
     Notte in sul capo al passegger, che vede
     Quasi un punto lontan d’un lume incerto
     L’altra bocca onde poi riede all’aperto:
     

5


E queste avrete imagini bastanti
     Del loco ove Topaia era fondata,
     La qual per quattro bocche a quattro canti
     Della montagna posta avea l’entrata,
     Cui turando con arte, a tutti quanti
     Chiusa non sol ma rimanea celata,
     In guisa tal che la città di fuore
     Accusar non potea se non l’odore.

6


Dentro palagi e fabbriche reali
     Sorgean di molto buona architettura,
     Collegi senza fine ed ospedali
     Vôti sempre, ma grandi oltre misura,
     Statue, colonne ed archi trionfali,
     E monumenti alfìn d’ogni natura.
     Sopra un masso ritondo era il castello
     Forte di sito a maraviglia e bello.
     

7


Come chi d’Apennin varcato il dorso
     Presso Fuligno, per la culta valle
     Cui rompe il monte di Spoleto il corso,
     Prende l’aperto e dilettoso calle,
     Se il guardo lieto in sulla manca scorso
     Leva d’un sasso alle scoscese spalle,
     Bianco, nudato d’ogni fior, d’ogni erba,
     Vede cosa onde poi memoria serba,
     

8


Di Trevi la città, che con iscena
     D’aerei tetti la ventosa cima
     Tien sì, che a cerchio con l’estrema schiena
     Degli estremi edifizi il pie s’adima;
     Pur siede in vista limpida e serena
     E quasi incanto il viator l’estima,
     Brillan templi e palagi al chiaro giorno,
     E sfavillan finestre intorno intorno;

9


Cotal, ma privo del diurno lume
     Veduto avreste quel di ch’io favello,
     Del pulito macigno in sul cacume
     Fondato solidissimo castello,
     Ch’al margine affacciato oltre il costume
     Quasi precipitar parea con quello.
     Da un lato sol per un’angusta via
     Con ansia e con sudor vi si salía.
     

10


Luce ai topi non molto esser mestieri
     Vede ciascun di noi nella sua stanza,
     Che chiusi negli armadi e nei panieri
     Fare ogni lor faccenda han per usanza,
     E spente le lucerne e i candellieri
     Vengon poi fuor la notte alla lor danza.
     Pur se luce colà si richiedea
     Talor, con faci ognun si provvedea.
     

11


D’Ercolano così sotto Resina,
     Che d’ignobili case e di taverne
     Copre la nobilissima ruina,
     Al tremolar di pallide lucerne
     Scende a veder la gente pellegrina
     Le membra afflitte e pur di fama eterne,
     Magioni e scene e templi e colonnati
     Allo splendor del giorno ancor negati.

12


Certo se un suol germanico o britanno
     Queste ruine nostre ricoprisse,
     Di faci a visitar l’antico danno
     Più non bisogneria ch’uom si servisse,
     E d’ogni spesa in onta e d’ogni affanno
     Pompei, ch’ad ugual sorte il fato addisse,
     All’aspetto del sol tornata ancora
     Tutta, e non pur sì poca parte fôra.

13


Vergogna sempiterna e vitupero,
     D’Italia non dirò, ma di chi prezza
     Disonesto tesor più che il mistero
     Dell’aurea antichità porre in chiarezza,
     E riscossa di terra allo straniero
     Mostrare ancor l’italica grandezza.
     Lor sia data dal ciel giusta mercede,
     Se pur ciò non indarno al ciel si chiede.

14


E mercè s’abbia, non di riso e d’ira,
     Di ch’ebbe sempre assai, ma d’altri danni,
     L’ipocrita canaglia onde sospira
     L’Europa tutta invan tanti e tanti anni,
     I papiri ove cauta ella delira,
     Scacciando ognun sui mercenari scanni;
     Razza a cagion di cui mi dorrebb’anco
     Se boia e forche ci venisser manco.

15


Tornando ai topi, a cui dagli scaffali
     Di questi furbi agevole è il ritorno,
     Vincea Topaia allor le principali
     Città dal tramontano al mezzogiorno,
     O rare assai fra quelle aveva uguali:
     Proprio de’ topi e natural soggiorno,
     Là dove consistea massimamente
     Il regno e il fior della topesca gente.

16


Perchè lunge di là stabil dimora
Avean pochi o nessun di lor legnaggio,
     Salvo in colonie, ove soleano allora
     Finir le genti or questo or quel viaggio.
     Ciò ben sapete, lungo tempo ancora
     Più di un popolo usò civile e saggio,
     Chiudea sola una cerchia un regno intero,
     Che per colonie distendea l’impero.

17


Potete immaginar quale infinita
     Turba albergò Topaia entro sue mura.
     Di statistica ancor non s’era udita
     La parola a quei dì per isventura,
     Ma di più milioni aver compita
     Color la quantità s’ha per sicura
     Sentenza, e con Topaia oggi si noma
     Ninive e Babilonia e Menfi e Roma.

18


Tornato, dunque, come sopra ho detto,
     L’esercito de’ topi alla cittade,
     E cessato il picchiar le palme e il petto
     Pei caffè, per le case e per le strade,
     Cedendo all’amor patrio ogni altro affetto,
     Od al timor, come più spesso accade,
     Del ritorno a cercar del messaggero
     Fu volto con le lingue ogni pensiero.
     

19


Perchè parea che nel saper l’intento
     Degl’inimici consistesse il tutto,
     E fosse senza tal conoscimento
     Ogni consiglio a caso e senza frutto,
     Nè trattar del durabil reggimento
     Del regno aver potesse alcun costrutto,
     Se la tempesta pria non si quetasse
     Ch’ogni estremo parea che minacciasse.
     

20


Ma per quei giorni sospirata in vano
     La tornata del conte alla sua terra,
     Il qual, venuto a fera gente in mano,
     Regii cenni attendea prigion sotterra,
     Crescendo dell’ignoto e del lontano
     L’ansia e la tema, ed a patir la guerra
     Parendo pur, se guerra anco s’avesse,
     Che lo stato ordinar si richiedesse;

21


Giudicò Rubatocchi, e i principali
     Della città con lui, di non far porre
     Più tempo, nè dar loco a novi mali,
     Ma prestamente il popolo raccorre,
     E le gravi materie e capitali
     Del reggimento in pubblico proporre,
     Sì ch’ai rischi di fuor tornando l’oste
     Dentro le cose pria fosser composte.

22


Ben avria Rubatocchi, e per le molte
     Parentele sue nobili e potenti,
     E perchè de’ soldati in lui rivolte
     Con amor da gran tempo eran le menti,
     E per quel braccio che dal mondo tolte
     Cotante avea delle nemiche genti,
     Potuto ritener quel già sovrano
     Poter che il fato gli avea posto in mano.

23


E spontanei non pochi a lui venendo
     Capi dell’armi e principi e baroni,
     Confortandolo giano ed offerendo
     Sè pronti a sostener le sue ragioni.
     Ma ributtò l’eroe con istupendo
     Valor le vili altrui persuasioni,
     E il dar forma allo stato e il proprio impero
     Nell’arbitrio comun rimise intero.

24


Degno perciò d’eterna lode, al quale
     Non ha l’antica e la moderna istoria
     Altro da somigliar non ch’altro uguale,
     Quanto or so rinvenir con la memoria,
     Fuor tre d’inclita fama ed immortale,
     Timoleon corintio ed Andrea Doria
     In sul fianco di qua dall’oceáno,
     E Washington dal lato americano.

25


Dei quali per pudor, per leggiadria
     Vera di fatti e probità d’ingegno,
     Negar non vo nè vo tacer che sia
     Quantunque italian, Doria il men degno:
     Ma perfetta bontà non consentia
     Quel secolo infelice, ov’ebbe regno
     Ferocia con arcano avvolgimento,
     E viltà di pensier con ardimento.

22


Deserto è la sua storia, ove nessuno
     D’incorrotta virtude atto si scopre,
     Cagion che sopra ogni altra a ciascheduno
     Fa grato il riandar successi ed opre;
     Tedio il resto ed oblio, salvo quest’uno
     Sol degli eroici fatti alfin ricopre,
     Del cui santo splendor non è beato
     Il deserto ch’io dico in alcun lato.

27


Maraviglia è colà che s’appresenti
     Maurizio di Sassonia alla tua vista,
     Che con mille vergogne e tradimenti
     Gran parte a’ suoi di libertade acquista,
     Egmont, Orange a lor grandezza intenti
     Lor patria liberando oppressa e trista,
     E quel miglior che invia con braccio forte
     Il primo duca di Firenze a morte.

28


Nè loco d’ammirar vi si ritrova,
     Se d’ammirar colui non vi par degno,
     Che redando grandezze antiche innova,
     Non già virtudi, e che di tanto regno
     Sè minor dimostrando in ogni prova,
     Par che mirar non sappia ad alcun segno:
     Cittadi alternamente acquista e perde,
     E il fior d’Europa in Affrica disperde.

29


Non di cor generoso e non abbietto;
     Non infedel nè pio, crudo nè mite;
     Non dell’iniquo amante e non del retto;
     Or servate promesse ed or tradite;
     Al grande, al bel non mai volto l’affetto;
     Non agevoli imprese e non ardite;
     Due prenci imprigionati in suo potere
     Nè liberi sa far, nè ritenere.

30


Alfin di tanto suon, tanta possanza
     Nessuno effetto riuscir si vede,
     Anzi il gran fascio che sue forze avanza
     Gitta egli stesso e volontario cede,
     La cui mole, che invan passò l’usanza,
     Divide e perde infra più d’uno erede;
     Poi chiuso, in monacali abiti involto
     Gode prima che morto esser sepolto.
     

31


O costanza, o valor de’ prischi tempi!
     Far gran cose di nulla era vostr’arte;
     Nulla far di gran cose età di scempi
     Apprese da quel dì che il nostro Marte
     Costantin, pari ai più nefandi esempi,
     Donò col nostro scettro ad altra parte;
     Tal differenza insieme han del romano
     Vero imperio gli effetti, e del germano.
     

32


Non d’onore appo noi, ma d’odio e sdegno
     Han gara i sommi di quel secol bruno.
     Nè facilmente a chi dovuto il regno
     Dell’odio sia giudicherebbe alcuno;
     Se tu, portento di superbia e pegno
     D’ira del ciel, non superassi ognuno,
     O secondo Filippo, austriaca pianta,
     Di cui Satan maestro ancor si vanta.

33


Tant’odio quanto è sul tuo capo accolto
     De’ tuoi pari di tempo e de’ nepoti,
     Altro mai non portò vivo o sepolto;
     O ne’ prossimi giorni o ne’ remoti.
     Tu nominato ogni benigno volto
     Innaspri ed ogni cor placido scoti,
     Stupendo in ricercar nell’ira umana
     La più vivace ed intima fontana.
     

34


Dopo te quel grandissimo incorono
     Duca d’Alba, che quasi emulo ardisce
     Contender teco, e il general perdono,
     Tutti escludendo, ai Batavi bandisce.
     Nobile esempio e salutar, che al trono
     De’ successori tuoi tanto aggradisce,
     A cui d’Olanda il novo sdegno e il tanto
     Valor si debbe ed il tuo giogo infranto.
     

35


Ma di troppo gran tratto allontanato
     Son da Topaia, e là ritorno in fretta,
     Dove accolto, o lettore, in sul mercato
     Un infinito popolo m’aspetta,
     Che un infinito cicalar di stato
     Ode o presume udir, loda o rigetta,
     E si consiglia, o consigliar si crede,
     E fa leggi, di farle ha certa fede.

36


Chi dir potria le pratiche, i maneggi,
     Le discordie, i rumor, le fazioni
     Che sogliono accader quando le greggi
     Procedono a sì fatte elezioni,
     Per empier qual si sia specie di seggi,
     Non che sforniti rifornire i troni?
     Tutto ciò fra coloro intervenia,
     E da me volentier si passa via,
     

37


E la conclusion sola toccando,
     Dico che dopo un tenzonare eterno
     All’alba ed alle squille, or disputando
     Dello stato di fuori, or dell’interno,
     Novella monarchia fu per comando
     Del popol destinata al lor governo:
     Una di quelle che temprate in parte
     Son da statuti che si chiaman carte.
     

38


Se d’Inghilterra più s’assomigliasse
     Allo statuto o costituzione,
     Com’oggi il nominiamo, o s’accostasse
     A quel di Francia o d’altra nazione,
     Con parlamenti o corti alte o pur basse,
     Di pubblica o di regia elezione,
     Doppie semplici alfin, come in Ispagna,
     Lo statuto de’ topi o carta magna;

39


Da tutto quel che degli antichi ho letto
     Dintorno a ciò, raccor non si potria.
     Questo solo affermar senza sospetto
     D’ignoranza si può nè di bugia,
     Essere stato il prence allora eletto
     Da’ topi, e la novella signoria,
     Quel che, se in verso non istesse male,
     Avrei chiamato costituzionale.

40


Deputato a regnar fu Rodipane,
     Genero al morto re Mangiaprosciutti.
     Così quando Priámo alle troiane
     Genti e di sua radice i tanti frutti
     Mancàr, fuggendo a regioni estrane
     Sotto il genero Enea convenner tutti:
     Perchè di regno alfin sola ci piace
     La famiglia real creder capace.

41


E quella estinta, i prossimi di sangue,
     E poscia ad uno ad un gli altri parenti
     Cerchiam di grado in grado infin che langue
     Il regio umor negli ultimi attenenti.
     Nè questo in pace sol, ma quando esangue
     Il regno omai per aspri trattamenti,
     Allor per aspra e sanguinosa via
     Ricorra in armi a nova dinastia;

42


E quando per qualunque altra occorrenza
     Mutando stato il pristino disgombra.
     Di qualche pianta di real semenza
     Sempre s’accoglie desioso all’ombra.
     Qual pargoletto che rimasto senza
     La gonna che il sostiene e che l’adombra,
     Dopo breve ondeggiar tosto col piede,
     Gridando, e con la man sopra vi riede.

43


O come ardita e fervida cavalla
     Che di mano al cocchier per gioco uscita,
     A gran salti ritorna alla sua stalla,
     Dove sferza e baston forse l’invita;
     O come augello il vol subito avvalla
     Dalle altezze negate alla sua vita,
     Ed alla fida gabbia ove soggiorna
     Dagli anni acerbi, volontario torna.

44


Re cortese, per altro, amante e buono,
     Veggo questo in antico esser tenuto,
     Memore ognor di quanto appiè del trono
     Soggetto infra soggetti era vissuto:
     Al popol in comun, per lo cui dono,
     E non del cielo, al regno era venuto,
     Riconoscente; e non de’ mali ignaro
     Di questo o quel, nè di soccorso avaro.

45


E lo statuto o patto che accettato
     Dai cittadini avea con giuramento,
     Trovo che incontro allo straniero armato
     Difese con sincero intendimento;
     Nè, perchè loco gliene fosse dato,
     Di restarsene sciolto ebbe talento.
     Di questo, poi che la credenza eccede,
     Interpongo l’altrui, non la mia fede.

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