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Noi che restiamo
Dio l'ha voluto! Usa sola donna

Noi, che restiamo....

Quando la scorsa inobliabile estate — solo quella a cui ci avviamo, avrà tale altissimo ritmo da sorpassarla, forse.... — ne condusse fra il sempre rinnovato stupore e la sempre crescente pena, sino al mese di ottobre, quando tutti rientrammo dalle villeggiature improvvisate, ove nè la beltà delle cose nè la dolcezza dell’aria avevan potuto sedurre le nostre anime, assorte e oppresse da un pensiero dominante, quando tutti fummo nelle nostre case di città, che avevamo lasciate in lietezza e ove rientravamo portando nel cuore una cura pungente e inguaribile, ognuno di noi appuntò meglio i suoi occhi e volse la sua attenzione verso le maestose e affascinanti metropoli, che avevamo visitate in tempo di pace, e che, ora, volevamo immaginarci in tempo di guerra. Anzi, la domanda più ansiosa, continuamente ansiosa, era questa: «E Parigi? E Parigi? Parigi così spumante di piaceri, così inebriante di gioia, Parigi ove le sere di primavera, le sere di autunno, erano un travolgente delirio dei sensi e dello spirito, nei suoi teatri, nelle sue vie affollate, nei suoi ritrovi notturni, tra le musiche, i profumi, le donne squisite, i vini squisiti, tra tutte le squisitezze. Parigi. Parigi, Parigi?» Veniva la risposta eguale, costante, sorprendente da ognuno che fosse stato, che fosse colà: «Parigi è irriconoscibile: i suoi teatri sono chiusi, come i suoi music-hall: sono sbarrati ¡ suoi alberghi, i suoi restaurants, i suoi ritrovi notturni: Parigi non ha più nè corse, nè concorsi ippici, nè esposizioni di quadri: Parigi non ha più thé delle cinque. soupers con tziganes: la rue de la Paix è spenta, come il quadrivio dell’Opéra, come l’Avenue des Champs-Elysées: Parigi, alle otto di sera, non ha più lumi: Parigi è all’oscuro. Subito dopo, venivan le altre domande: «E a Londra, che si fa? Che si fa a Berlino? Che si fa a Vienna?» I testimoni oculari, quelli che venivano dall’Inghilterra, dalla Germania, dalla Russia, quelli che scrivevano delle lettere, da queste grandi nazioni in guerra, da queste loro capitali in guerra, dicevano, scrivevano, sostenevano, affermavano decisamente, che a Berlino, a Londra, a Pietroburgo, malgrado l’immane conflitto, alle frontiere e sul mare, la vita sociale non aveva interrotto nessun suo movimento di affari, di opere, di lavoro: che tutti quelli che eran restati in patria, seguitavano a compire, quotidianamente, ogni loro dovere di lavoratore e di cittadino: e che, infine, tutti quelli che eran restati in patria, seguitavano a compiere, quotidianamente, ogni loro dovere di lavoratore e di cittadino: e che, infine tutti gli onesti svaghi che l’arte, che gli spettacoli, che gli sports offrivano ordinariamente agli inglesi, ai tedeschi, ai russi, seguitavano a raccoglier pubblico, pubblico folto e pubblico attento. E increduli, al principio, in una Parigi senza luce, senza gioia, senza ebbrezza di vivere, eravamo anche, increduli che a Berlino, a Londra, a Pietroburgo, si vivesse come sempre, come se la guerra non vi fosse, come se non vi fossero già migliaia di vedove e migliaia di madri, a cui eran morti, in battaglia, i figliuoli. Non prestavamo fede, a tutto questo: neanche che, forse, in queste nazioni non si portasse, forse, il lutto dei prodi morti in guerra. Poi, più tardi, tutti ci siamo convinti che era pretta verità, quanto ci si narrava, quanto ci si scriveva: più tardi, abbiamo compreso che il sentimento patriottico di chi restava era stato ed era egualmente ammirabile in Francia, dove, per un senso di morale pubblica, per un necessario ritorno a un criterio severo e austero di costumi, era stata abolita, di un colpo, la sfrenata vita di piaceri, a Parigi: mentre a Londra, a Pietroburgo, a Berlino, pareva un dovere civile, quello di continuare a vivere, pensando, volendo, operando, lavorando, e, anche sollevando lo spirito, in distrazioni necessarie, fornite dall’arte. Due forme, dunque, dello stesso sentimento: onorare, a Parigi, quelli che combattevano al fronte, riconducendo il silenzio e la virtù ove erasi scatenata malamente la furia di godere: onorare, a Londra, a Berlino, a Pietroburgo, coloro che si battevano e morivano eroicamente, continuando nelle metropoli, l’opera incessante di lavoro e di ricostruzione sociale. «Voi morite per noi — dicevano i parigini, ai loro prodi soldati — e noi non dobbiamo salire a Montmartre, nei cabarets de nuits a fare delle orgie eleganti». «Voi morite per noi — dicevano gli inglesi, i tedeschi, i russi, ai loro fratelli, sul campo — e noi vogliamo soffrire, qui, ma lavorare, vogliamo soffrire, ma compire il dover nostro, vogliamo offrirvi in cambio il nostro coraggio civico, quello di vivere per la nazione nostra e per la sua fortuna ...»

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Quale delle due forme sceglieremo noi, noi che siamo restati a casa, per onorare il coraggio di coloro che sono partiti per la frontiera orientale e per tener ferma, in patria, la fortuna d’Italia? Qual’è, mai, il nostro primo dovere, noi che abbiamo benedetto e bene diciamo, in segreto, ogni passo di coloro che ci sono lontani — e presenti, sempre, nel nostro spirito! — e che vogliamo renderci degni, qui, di tanto loro sacrificio? Vogliamo abbandonare i nostri affari, le nostre industrie, i nostri commerci, per una pesante e triste pigrizia morale e fisica? Vogliamo disperdere il frutto delle nostre fatiche, non coltivandolo con nuove e costanti opere, abbandonandoci a quella fiacchezza morale, che è la inimica maggiore? Vogliamo restare immoti e taciti, nella malinconica attesa di notizie, lasciando sfuggire ogni occasione di renderci utili al nostro paese, qui, in casa, ove si ha tanto bisogno di noi? Vogliamo lasciar deserte le officine, gli stabilimenti, le banche, i negozi, dandoci in preda a un pessimismo corrodente? E dopo le fatiche quotidiane, vogliamo che si chiudano, in segno di cordoglio, tutti gli alberghi, tutti i restaurants, tutti i caffè e tutti i teatri, perchè anche più lugubre si faccia l’aspetto delle città e perchè tutta la gente che vive di questo, perisca di fame! Ah noi non siano simili a Parigi, in Italia, a Milano e a Palermo, a Roma e a Napoli, a Torino e a Venezia, non siamo simili a quella Parigi, brillantissima e sbrigliatissima, piacevolissima e, diciamolo, viziosissima, che si era imposta all’altra Parigi, all’altra Francia, ove vi è tanta gente intelligente, buona, onesta! I nostri costumi sociali, le nostre consuetudini familiari, conservano, in Italia, quella correttezza e quella dignità che ognuno ci deve riconoscere: e i tentativi di introdurre, fra noi, anche una minima parte di quella noce parisienne così smagliante e così impura, non sono mai riesciti. Di nulla, adunque si deve redimere, si deve lavare, l’Italia, perchè quel l’evento tragico che è la guerra ha condotto il suo Re ed il suo esercito, verso l’antico nimico: e se Parigi, se la Francia hanno osato con gesto audace, con gesto di salvazione, tagliar dal proprio nobile corpo, il pezzo canceroso, diamo lode sincera a chi tanto fece; ma noi non abbiamo bisogno di nulla recidere, per risanare la bella, sana e vigorosa Italia, che non ha tara, che non ha pecca, che è intiera, florida, splendida di salute morale e fisica!

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È l’altra forma di patriottismo, quella che altri popoli seppero praticare, e per cui meravigliarono il mondo: è la forma che tanto fece rifulgere il valore civile delle altre nazioni in guerra: è. quella forma seria e semplice, insieme, per cui la vita diventa una vera disciplina di virtù, un vero esercizio di bene: è questa forma di amor patrio, che è il dover nostro, in Italia. Non debbono gli uomini che marciarono oltre l’Italia, verso le terre irredente e già le bagnarono del più puro loro sangue, per conquiderle al nostro amore fraterno, alla nostra fraterna nostalgia, sapere che l’Italia si è fasciata di lutto, solo perchè è in guerra, mentre essa giura sulla vittoria: non debbono sapere che essa si è fatta abbattere dal cordoglio, prima ancora di ogni vasta azione campale: non debbono saperlo, se si vuole che il loro animo di combattenti sia sereno, se si vuole che il loro cuore si esalti. Non dobbiamo noi che restammo a custodire la famiglia, la casa, la città, diventare i lugubri custodi di un cimitero di vivi; il tesoro della patria che ci fu confidato, dobbiamo accrescerlo di forza, di ricchezza, di bellezza, qui, mentre laggiù i nostri soldati lo accrescono di gloria. Vivere, dobbiamo, di una vita piena di ogni energia morale, piena di ogni vivificazione intellettuale: vivere, dobbiamo, di una vita operosa, efficace, la quale ci distragga potentemente dal nostro segretissimo e chiusissimo dolore, e faccia, anzi, di questo intimissimo ospite nostro, il dolore, una leva innumerevole di forza: vivere, dobbiamo, non in festa, non in letizia, ma come creature coscienti di ogni loro maggior dovere, ma come creature cui niuna espressione di umana efficienza sia estranea: vivere, dobbiamo, con ogni nostro impeto e con ogni no stra tenacia, per la fortuna d’Italia, come laggiù, lontano, con impeto e con tenacia, i nostri diletti si battono e vincono per la grandezza d’Italia!

.... 10 giugno 1915.

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